A costo di risultare noioso, pongo una altra volta la domanda che in questo periodo troppi fingono di non porsi mai: il ciclismo italiano può permettersi di avere alla sua guida, sull’ammiraglia delle nazionali azzurre, un commissario tecnico sotto inchiesta giudiziaria? Al momento la Federazione guidata da Giancarlo Ceruti, il signore che da anni brandisce la trasparenza e il rigore in tema di doping come sue prerogative personali, ha dato una risposta inappellabile: sì, il ciclismo italiano può permettersi di avere nel suo posto più prestigioso e rappresentativo, alla guida delle nazionali azzurre, un uomo sotto inchiesta.
Potremmo tranquillamente chiuderla qui e passare oltre. Eppure a me sembra che la questione sia troppo delicata, troppo altamente simbolica per non continuare a porla. Partendo dal presupposto fondamentale che fino a condanna definitiva Antonio Fusi non è colpevole del reato (brutto, molto brutto) contestato dai giudici bresciani, nessuno può negare la legittimità della cosiddetta «questione di opportunità». In altre parole, sarebbe molto opportuno - anche se non dovuto, sia chiaro - che lo stesso Fusi si facesse un attimo da parte in attesa di chiarire bene la sua posizione, augurandogli ovviamente di chiarirla nel modo migliore. Ovviamente parlo di sospensione del mandato, non di dimissioni, che invece diventerebbero necessarie soltanto dopo un’eventuale condanna. Mentre Fusi passa per interrogatori e memorie difensive, sarebbe più giusto e più salutare che il ciclismo italiano abbia alla sua guida un personaggio libero da simili occupazioni e dunque certamente meno imbarazzante. Diciamola tutta: il ruolo del cittì azzurro, almeno per come l’ha interpretato in questi decenni Alfredo Martini, può risultare molto più rappresentativo di mille campagne e di mille discorsi. Come può un ambiente già abbastanza sospetto - parlo della rogna doping - permettersi di lasciare ineffabilmente al suo posto (posto chiave) un personaggio sotto inchiesta?
So che questo discorso può risultare fastidioso per mille motivi. Ma qualcuno deve continuare a farlo, perché il rigore e la trasparenza non sono soltanto simpatici distintivi da mettersi al bavero nelle campagne elettorali o sfilando come pavoni in televisione. Il rigore comporta scelte dolorose, quando è giusto e opportuno prenderle. Invece qui si assiste alla solita gestione italiana dello scandalo: il presidente Ceruti, quello della lotta senza quartiere al doping, quello che caccia a casa Chiappucci alla vigilia del mondiale di San Sebastian, manifesta la commossa solidarietà al suo cittì. E quanto a lui, al nostro cittì che fa anche della scelta dei tubolari una questione di cultura sportiva, che vanta al suo attivo la solenne carica di maestro dello sport, non ha mai avvertito nemmeno per un attimo la necessità di porsi su un piano alto di inattaccabilità, almeno sotto il profilo morale, facendosi volontariamente da parte fino al giorno del totale chiarimento. Per non parlare poi di noi giornalisti, che ormai di rigore parliamo soltanto in televisione davanti alle moviole dei Biscardi e dei Pistocchi.
Questa è l’Italia, questi siamo noi. Quando avanzo il problema di Fusi sotto inchiesta e tranquillamente al suo posto, si scatenano le più svariate reazioni. C’è per esempio chi dice che io abbia una questione personale col cittì. Su questo punto, sarà bene chiarire subito che per certe cose non possono valere le questioni personali, nè contro nè a favore. Nel mio piccolo, posso assicurare che le stesse obiezioni avrei avanzato anche se in questa situazione si trovasse Alfredo Martini, cui voglio un mondo di bene (comunque mi piace pensare che con lui non sarebbe necessario, perché si autosospenderebbe da solo prima ancora di iniziare i discorsi).
Altri invece giudicano questo atteggiamento come provocatorio. E qui siamo veramente al lato più triste del nostro costume nazionale: ormai siamo al punto che una cosa normalissima come la richiesta di gesti opportuni e simbolici diventa provocatoria. Verrebbe da piangere, se non fossimo purtroppo allenati a questa singolare visuale: qui siamo nella terra in cui chi paga le tasse è un eroe, qui siamo nella nazione in cui un candidato politico esibisce l’onestà come dote unica ed eccezionale. Siamo alla normalità ribaltata: è normale il sotterfugio, l’interesse, la convenienza. È provocazione l’elementare richiesta di rispetto delle regole. Purtroppo così siamo messi. Che altro aggiungere, allora? Quasi nulla. Se questa è la situazione, personalmente mi tengo volentieri la patente del provocatore. L’unica cosa che mi preme, è di esserne almeno degno.
Cristiano Gatti, bergamasco,
inviato de “Il Giornale”
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