Marzo è già stagione inoltrata, almeno per questo ciclismo ad alta intensità agonistica: non a caso, è possibile delineare fin d’ora l’entità e la consistenza dei diversi schieramenti. Personalmente, trovo che questa stagione sia partita nel segno di un nuovo gruppo sportivo, un gruppo molto forte e articolato, sicuramente la più grande squadra che il ciclismo abbia mai schierato al via, più completa di una nazionale e più assortita di un Dream Team: il favoloso, straordinario, fantasmagorico G.S. Sottoinchiesta.
La campagna acquisti di questo squadrone è durata mesi, praticamente tutto un inverno. I registi dell’operazione, magistratura ordinaria e magistratura sportiva, hanno messo a segno un colpo dopo l’altro, acquisendo i più bei nomi sul mercato e assemblandoli in rigoroso ordine alfabetico. Aiutati da osservatori sparsi su tutto il territorio, da Bologna a Torino, da Firenze a Trento, i diesse togati non hanno badato a spese, sempre in nome del sano principio «che per un mister è comunque meglio avere problemi di abbondanza». Pantani, Gotti e Tonkov per i grandi giri, Cipollini per le volate, Savoldelli per le discese, Olano per le cronometro, più tutti gli altri per le corse di un giorno o per i traguardi intermedi. Potenzialmente, il G.S. Sottoinchiesta è in grado di vincere tutto. Il problema è: fino a quando potrà correre?
A questo siamo arrivati: mezzo gruppo sotto tutela giudiziaria. Mezzo gruppo con lo spadone di Damocle sulla testa (servisse almeno a convincerli a mettersi il casco). Mezzo gruppo in libertà vigilata, sempre in attesa di un processo, di un deferimento, di una squalifica. Il perverso intreccio delle inchieste giudiziarie, lunghe e inconcludenti, con le più veloci e sbrigative procedure sportive, fa sì che il ciclismo sia ormai uno sport col cuore in gola. I corridori partono - per un viaggio, per una corsa - ma si portano dietro un tarlo fastidioso: avvertono costantemente e angosciosamente che quella partenza potrebbe essere l’ultima della stagione (per qualcuno, della carriera).
E’ giusto tutto questo? No che non è giusto. Gli atleti devono essere sgombri nella testa e nell’anima. Gli atleti, come tutti i cittadini, hanno diritto ad avere indagini, processi e sentenze veloci. Questo come base. In più, avrebbero diritto ad un minimo di certezza: invece qui siamo tutti in bilico sull’opinione personale e sull’interpretazione del singolo, come l’acrobatica equazione della procura antidoping del Coni secondo la quale tassi alti di ematocrito dimostrerebbero l’Epo sintetica nel sangue (ma quanto sono bravi, non c’era mai arrivato nessuno: peccato che bisognerebbe dimostrarlo con qualche prova scientifica). In una parola, gli atleti meriterebbero più rispetto e più civiltà, nei tempi e nei modi. E per carità di patria sorvoliamo sull’indecente propaganda di certi inquirenti pavoni, di certi professionisti dell’antidoping (se muore il doping, vanno a scaricare cavolfiori all’ortofrutta), di certi melliflui dirigenti sportivi che all’improvviso riscoprono il gusto della verginità. L’umanità è questa, non è nemmeno il caso di sorprendersi.
Detto questo, anche gli atleti del G.S. Sottoinchiesta devono però dirsi quattro parole. Non al pubblico, non ai giornali, non alle televisioni: lo sappiamo meglio noi di loro, in queste sedi escono solo ipocrisia e bugie. No, devono parlarsi nei segreti delle camere, in ritiro, nelle valli sperdute dove vanno ad allenarsi. Devono soprattutto porsi reciprocamente una banale domanda: ne è valsa la pena? È questo che volevamo? Certo il grande festival dell’Epo di questo decennio ha arricchito molti di loro: ma lasciando a parte il discorso salute, cui ognuno attribuisce il valore che vuole, è davvero così ininfluente andare in giro sputtanati e lebbrosi, additati e sospettati, derisi e sbertucciati nei discorsi dei bar e nei salotti televisivi, dove ormai anche il più cretino del creato arriva alla geniale conclusione che «i ciclisti sono tutti drogati»? È davvero così piacevole vivere in libertà vigilata, col sottile terrore ogni volta che passa un carabiniere sotto casa?
Se dopo averne parlato nel segreto delle loro camere, a quattr’occhi, senza reticenze, a muso duro, concludono che così non si può continuare, allora facciano pure qualcosa. Facciano valere la legge del branco, o della caserma, insomma le regole non scritte - ma ferree e spietate - che dominano il gruppo. E il doping avrà vita durissima. Se invece arriveranno alla conclusione solita, e cioè che la desolazione di questi tempi non è un problema, che comunque ne vale sempre la pena, facciano almeno il piacere di avvertirci. Ci eviteremo tutti la fatica di chiedere rispetto per gente che non ne ha neppure di se stessa.
Cristiano Gatti, bergamasco,
inviato de “Il Giornale”
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