E meno male che il secondo millennio se n’è andato, così possiamo metterci un po’ comodi dopo tutte quelle affannose ricerche. Abbiamo cercato il genio più geniale, la bellona più bellona, l’artista più artistico. E ancora: il disco del secolo, il piatto del secolo, il libro del secolo. Partorendo spesso, senza il minimo sforzo, anche le stupidaggini del secolo.
Certo, abbiamo cercato anche il ciclista più ciclistico. Su tuttoBICI, come già s’è visto leggendo il giornale dalla sua parte più importante (non a caso mi piazzano qui alla fine), troneggia Coppi. Non c’è che dire: un signor vincitore. Però vorrei aggiungere anche una cosa personalissima: meno male che è iniziato il terzo Millennio, così la ricerca del nuovo re potrà ricominciare da capo in modo più sereno, fuori dalla nostalgia e fuori dai sentimenti.
Sì, auguro ai campioni della nuova era una miglior fortuna: perché in quella che abbiamo appena chiuso la classifica è falsa. Meglio: falsata. Appunto: dal cuore, dalla passione, dai ricordi personali. Soltanto mossi da queste cose si può dire che il più grande ciclista di tutti i tempi, almeno quelli trascorsi, sia Fausto Coppi. Perché se invece cerchiamo una risposta puramente oggettiva, il problema non si pone proprio: il numero uno è a tutti gli effetti Eddy Merckx.
Come si fa a dirlo? È ovvio: nessuno può dirlo in termini assolutissimi, perché paragonare i campioni - ma anche semplicemente gli uomini - di epoche diverse è un’idiozia. Troppo lontane le condizioni di vita, la tecnologia, la scienza, la stessa alimentazione, per avere una risposta scientificamente attendibile. Se però si vuole procedere ugualmente, anche solo per gioco, bisogna almeno trovare un criterio. La memoria? Troppo personale: ciascuno ha la sua. Così come il tifo, la simpatia, la nostalgia. Non se ne viene fuori. L’unico veramente accettabile, anche se può apparire arido e gelido, è quello dei risultati. E allora, come dicevo, il problema non si pone proprio. Apro il «Righi», l’almanacco perfettibile, ma vicino alla perfezione.
Amici, Merckx è l’umano che ancora oggi guida la classifica delle vittorie in carriera: 426, escluse quelle minori. Coppi? È a 123. Vogliamo riconoscere un minimo di differenza? Se poi usciamo dalla quantità per addentrarci nella qualità, segnalo che il popolare Eddy ha al suo attivo sette Milano-Sanremo. Qualcuno riesce a immaginare che cosa significhi vincere sette Milano-Sanremo? Dice: la Sanremo è una corsa affascinante, ma stupidotta. Va bene. Passo al resto: tre campionati del mondo, tre Roubaix, due Giri di Lombardia, cinque Liegi-Bastogne-Liegi, due Giri delle Fiandre. Insiste: il grande corridore si vede nelle corse a tappe. Perfetto: cinque Giri d’Italia e cinque Tour de France. Possono bastare?
Eppure ci sono altre obiezioni. Coppi è stato sfortunato, ha corso poco per la guerra. Per piacere, va bene il tifo e l’amore, ma non diciamo stupidaggini: Coppi diventa professionista nel 1940 e smette - purtroppo - nel 1959. Togliamoci pure la guerra, ma sono pur sempre vent’anni di carriera. E Merckx? Professionista dal 1974 al 1986. Si ferma a 32 anni, quando ancora potrebbe vincere qualcosa, perché è campione anche nell’onore. Una carriera più corta, dunque, anche se nessuno nega che nella sua epoca si gareggia di più.
E allora? E allora è antipatico fare i detrattori di Coppi, ma se si vuole ragionare questo è il ragionamento. Il problema è che molti esperti, di fronte a questo atavico dilemma, usano più il cuore che il cervello: operazione nobilissima, ma che non deve essere spacciata per operazione scientifica. Dicano: «il mio preferito è Coppi», non «Coppi è il più forte». Così ci si capisce. Invece prevale sempre l’egocentrismo e la personalizzazione della storia: quello che è mio, quello che ho vissuto io, è comunque «di più».
Povero Merckx. Mi chiedo che cosa avrebbe dovuto ancora fare per raccogliere il giusto riconoscimento di ciclista numero uno. Certo: se quasi cinquecento vittorie non bastano, poteva arrivare al migliaio. Ma temo che anche in questo caso non sarebbe bastato. Sarebbe sempre saltato su qualcuno con frasi del tipo «sì, però quella volta che Coppi diede un’ora a Marinelli nel Tour del ’49...». Tutto così, sul filo dell’epica e della nostalgia. Senza possibilità di discussione. Io mi tengo un forte sospetto: l’unica cosa che Eddy avrebbe potuto ancora fare è nascere italiano.
Cristiano Gatti, bergamasco,
inviato de “Il Giornale”
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