Gatti & Misfatti
Tv obesa

di Cristiano Gatti

Ne abbiamo parlato recentemente con il direttore Stagi, dopo esserci esaltati come marmocchi all'ennesimo duello tra Valentino Rossi, Lo­ren­zo e Stoner. Ci dicevamo: le emozioni di queste gare, spazzato via il fascino melenso dell’attuale F.1, oscurano pe­santemente an­che lo spettacolo del ciclismo. Dob­biamo riconoscerlo onestamente. Subito do­po però ci siamo chiesti perché. Come mai il ciclismo non riesce più a scatenare simili eccitazioni. E soprattutto che cosa si po­trebbe fare per re­sti­tuire allo spettacolo televisivo un minimo di emozione, eliminando l’aria pesante da abbiocco duro di quest'ultima epoca.

Èevidente che ciascuno avreb­be in testa la sua trasmissione ideale. La telecronaca è come la pizza: chi la vuole alta e chi la vuole bassa, chi la vuole croccante e chi la vuole morbida. Ovvia­men­te, so­no tutte idee rispettabili. Ma c’è un aspetto sul quale tutti quanti, mi pare, si possa concordare: ultimamente, dico negli ultimi anni, la Rai dedica troppe ore al ciclismo. A un certo ciclismo, diciamo al Giro e anche al Tour, alla Sanremo e al Lombardia, sterminando invece senza pietà tutto il resto (e non mi si dica che dare certe corse sul satellite ad orari im­pervi significa valorizzare il ci­clismo minore: quella è carità).

So benissimo di urtare su­bito molte suscettibilità. Quel­la di certi appassionati, che vorrebbero la diretta di otto ore della tappa, anche se la tappa ne dura sei. E quella dei colleghi Rai, che come piastrellisti pagati a cottimo vorrebbero occupare il video 24 ore su 24. Ovvia­mente, di questa seconda su­scettibilità non mi importa un’emerita fava. È con gli ap­passionati che mi piacerebbe confrontarmi, per sentire le loro ra­gioni e per spiegare le mie.

Diciamoci la verità. Dav­ve­ro può entusiasmare la grande platea vedere un gruppo che si trascina stancamente sulla prima salita, a 120 chilometri dal traguardo, mentre un telecronista con patetiche velleità da Alberto Manzi dei poveri ci racconta che Amalfi era una Re­pubblica marinara e che i pomodori San Marzano so­no appetitosi? Questo, non altro, è l’elet­triz­zante show of­ferto dalla Rai ne­gli ultimi anni. Non potendo, per limiti professionali evidenti, puntare sulla qualità, la faraonica e gigantesca macchina statale pun­­ta tutto sulla quantità. Mo­strano i muscoli, come i lottatori di wrestling. Mostrano il peso, come al mercato delle vacche. Il risultato, però, è sotto gli occhi di tutti: si dorme come bestie fino alle sedici e trenta, anestetizzati da fughe insulse e da commenti mortiferi. Io lo dico sempre alle mamme: se non riuscite a far appisolare i vo­stri bimbi, di pomeriggio, accendete su Raitre: c’è una diretta che tramortisce anche i tori in tempesta ormonale.

Devo essere onesto: io personalmente, di questa pizza televisiva, me ne sorbisco solo una parte. Stando al seguito della corsa, me ne infliggo una piccola parte quando mi fermo a mangiare qualcosa - prosciutto crudo e carote il mio me­nù consigliato per reggere di stomaco - quindi il resto mi aspetta all’arrivo. Lo giuro, quando però arrivo in sala stampa, o sul traguardo nel serraglio riservato a noi giornalisti, vedo i colleghi an­dati avanti in anticipo ridotti veramente malissimo: stravaccati sulle se­die, occhi riversi all’indietro tipo colpo apoplettico improvviso, gente crollata in avanti sul computer tipo partoriente che ha rotto le acque, valorosi che fingono di seguire, ma che tragicamente non si accorgono co­me nel frat­tempo qualche mattacchione abbia cambiato canale, andando sul documentario dei delfini in amore.

Certo, esagero. Ma l’indo­len­za e la sonnolenza so­no vere. Nessuno, nep­pu­re il ma­go Houdinì, resisterebbe vispo e sveglio davanti all’insostenibile ipnosi Rai. Poi, fi­nalmente, si ar­riva ai piedi dell’ultima salita, o in vista del grande sprint: e im­prov­vi­sa­men­te è come se gli ar­cangeli suonassero le trombe del giudizio universale, tutti quanti avvertono una scossa particolare e il ciclismo torna ad essere emozione. Ma quanta sofferenza, diamine, prima di gustare lo spettacolo vero. Bisogna soffrire come dannati, per assaporare mezz’ora di beatitudine.

Si sarà già intuito: la mia idea è che per restituire al ciclismo il suo inconfondibile fascino, la Rai deve smetterla di trasformarlo nella Co­razzata Potemkin. Se l’azienda deve am­mortizzare le spese, spalmandole su più ore di trasmissione, se i telecronisti devono esporre il proprio sapere, spalmandolo sui no­stri zebedei, trovino altre strade. Il ciclismo non ha bisogno di quantità: ha bisogno di qualità. Cioè di valorizzare i momenti to­pici e fondamentali della corsa. In­terviste, approfondimenti, re­troscena: va tutto bene, ma dopo. La telecronaca deve durare un’ora, non di più. Della San­re­mo non ci interessa più vedere il Turchino: quella ormai è una gi­ta. Vogliamo sublimare gli ultimi minuti, dalla Cipressa in poi, fi­no al parossismo del Poggio. Del­la Roubaix interessano gli ultimi 40 chilometri (se proprio vogliono un po’ di poesia, breve replay sulla foresta di Arenberg). Del Giro e del Tour vogliamo vedere i duelli veri e gli scatti veri dell’ultima montagna, senza doverci ammorbare dalle dieci di mattina con la lenta tiritera della squadra che tiene la corsa giù in pianura.

Un’ora sola ti vorrei, non di più: se davvero ci preme che il ciclismo torni ad es­sere l’emozione forte e inimitabile, almeno quanto i Gp dei Va­len­tini Rossi. E dei nostri telecronisti, questi pozzi di cultura e di tecnica, che ne facciamo? Co­me comprimerli in spazi così ridotti? Io avrei questa idea: o im­parano a contenersi nella su­blime arte della sintesi, oppure provano a misurare questo loro smisurato bagaglio di nozioni in un bel telequiz. Quanto meno possono vincerci qualche euro, senza dover scommettere tra di loro in diretta tv.
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