In un ciclismo che sa di congedo illimitato, e non solo di autunno, in quello stesso ciclismo dove in tanti coltivano il gusto perverso delle antiche provette e in troppi l’intollerabile ambiguità dei comodi silenzi, ben rivenga Lance Armstrong. E a farci meditare una volta ancora la sua vicenda umana, giovinezza-malattia-gloria, tutta compresa. 7 Tour inclusi.
Ben ritorni, in piena lizza, e con tutti gli onori. Ritorni, passate senza scorciatoie le barriere dell’antidoping della Usada e dell’Uci, dal Tour Down Under, o dal Giro di Georgia. E guai a perdercelo, signori del ciclismo, in questo vostro/nostro sport agli sgoccioli di immagine. E guai, per inciso, ma non ci sarà bisogno alcuno di suggerirlo all’ottimo Zomegnan, a non portarlo al Giro, per la prima volta. Lui che giusto in Italia, a Marostica, il 1 settembre del ’92, nel Gran Premio Sanson, vinse la prima corsa da pro...
In questo ciclismo dove ogni impresa impone il sospetto, e l’entusiasmo invoca la prudenza, noi siamo i primi a ringraziare senza pudore Lance Armstrong di questo suo pedalare all’indietro. Per un briciolo di nostalgia del ciclismo, a modo suo, e beato lui. Per una voglia di Tour ancora, e sia. Ma ancor più, lo sentiamo, per stipulare un comodato d’uso di questo modesto ciclismo, nel nome di finalità e prospettive maggiori. E Dio sa quanto maggiori. The big picture.
Lance Armstrong, 15 anni dopo quel suo Mondiale di Oslo che lo innalza sempre a più giovane campione del mondo del dopoguerra, a meno di ventidue anni, con un paio di giorni di vantaggio su Monseré, ritorna una seconda volta alle corse. E se la prima volta, nel ’98, diciamo, era una scommessa agonistica con sè stesso, del tutto plausibile, con una traiettoria famelica di successi, stavolta è una scelta di campo diversa.
Nel 2009, a 38 anni da compiere, il suo recupero ha la lettura non di una scalata al trionfo su strada, ma di un sacrificio consapevole per una ascesa che non sarà “solo” l’Izoard o il Ventoux. Armstrong rientra - lo ha detto e vi crediamo - per sconfiggere non Contador e Leipheimer, tantomeno Sastre e Basso. Rientra per un’altra corsa, e contro altri più subdoli avversari. Lui, e il suo braccialetto giallo Livestrong, quello che indossiamo da quattro anni e che è tanto bello. Molto più di un Rolex, riconoscere al polso di una persona anonima per la via, torna come un monaco benedettino itinerante dell’antichità: a divulgare il Verbo della lotta al cancro, a trovare interlocutori e fondi per la sua Fondazione, a scuotere con il gesto umile di una bici l’indifferenza della gente o la pigrizia della scienza.
È ancora lui, e questa rinnovata esposizione, che non appartiene al melodramma, ne esprime un coraggio da apostolo, a testimoniare contro il flagello universale, quel doping delle nostre cellule, che resta il cancro. Ancora lui. E senza l’obbligo della vittoria, già Il Vincitore.
Il suo ritorno non sarà come quello del ’98, pur faticoso, pur sofferto. Primo al Giro del Lussemburgo, a giugno, al Giro della Sassonia, i suoi quarti posti ai Mondiali di Valkenburg e alla Vuelta. Con quel Tour nella mente e nel cuore da ritrovare l’anno dopo. Dopo essere stato, due anni prima, sull’orlo della morte.
Lì, forse, c’era in Lance un senso presuntuoso di futuro da vivere ed incendiare rabbiosamente. Oggi, Armstrong ritorna da ancor più lontano. Con un handicap, se possibile, più pesante. Non più Figlio, ma Padre. Maturo, scavato in viso, parco di sorrisi. Ancora senza squadra, unattached, “indipendente”. Solo ventiduesimo al Cross di Las Vegas, ma con una promessa, Livestrong, da indossare come un saio. Ed una forza morale, crediamo, oltremodo esaltante. L’energia che viene da un intimo divino.
Ed induce a faticare, in bicicletta, per salvare qualcuno di noi. E non è retorica, o minimalismo, a rifletterci sopra.
Ps “Solo un eroe dei nostri tempi, questo Armstrong”: qualcuno, non miscredente ma appena più scettico di noi, obietterà. E sia. Ma non conosciamo altri eroi che abbiano fatto realmente qualcosa per migliorarli. Questi tempi nostri. E che venga dal ciclismo della fatica è una infinita, e non amara, lezione di vita.
Gian Paolo Porreca,
napoletano,
docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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