Gatti & Misfatti
Quel requiem negato

Cara Anna, cara Paola: per fortuna avete soltanto cinque anni e nove mesi, circostanza che vi mette al riparo da parecchie cose. In primo luogo dall’insopportabilità del lutto, che vi ha mutilato di uno dei due arti più importanti per qualsiasi bambino, cioè i genitori: il vostro papà, Denis, se n’è andato troppo presto, a 32 anni, perdendosi il gusto di vedervi crescere, belle come il sole, ma tutto questo ancora non siete in grado di capirlo, e quindi riuscirete a sopravvivere meglio. In secondo luogo, l’età del candore vi mette al riparo da qualcosa di vergognoso e terribile, qualcosa che purtroppo imparerete comunque a conoscere più avanti, prima o poi, camminando lungo il solco della vita: lo squallore degli uomini.

Cara Anna, cara Paola, alla vostra mamma e ai vostri nonni è andata molto peggio: loro hanno visto e sentito. Annichiliti dal dolore per una morte così assurda, hanno dovuto subire l’oltraggio più umiliante: davanti al loro lutto, avvoltoi e sciacalli si sono contesi i poveri resti del defunto, senza ritegno e senza pudore, dilaniandoli con gli artigli di un cinismo osceno. Alla fine, del vostro papà, non è rimasto più niente: l’hanno mandato al cimitero con un epitaffio crudele, l’epitaffio che condanna più di tanti insulti dichiarati, quello del sospetto.

Fra qualche anno, quando sarete donne intelligenti, forse la vostra mamma e i vostri nonni cercheranno di spiegarvi. Lo faranno usando tutte le cautele possibili, per evitare ferite postume e dolori aggiunti. Sarà una cosa giusta, perché le vostre domande meriteranno una risposta. A quel punto, toccherà a voi: risalendo a ritroso le vicende della vostra famiglia, dovrete farvi un giudizio personale su questa storia così dolorosa. Solo un consiglio: non fatevi incantare dalla solita tiritera - stupida e vuota - sul tempo che guarisce qualsiasi ferita. Nossignori, il tempo non deve guarire proprio un bel niente. Il tempo deve solo aiutarci a maturare, per capire ogni giorno qualcosa di più. Altro che dimenticare: andateli a cercare, un giorno, quelli che hanno infierito sul vostro papà.

Subito dopo la sua morte, tanti uomini di bassa lega hanno colto l’occasione per liberare tutta la vanità del loro Ego. La salma non era ancora ricomposta nella camera ardente, già loro erano in vetrina. Certi giornalisti, che per avere un commento in prima pagina e una medaglia da moralisti farebbero qualunque cosa, persino camminare sopra a due orfane di cinque anni e nove mesi, hanno immediatamente comunicato i risultati della propria autopsia: Zanette vittima del doping. Con quel modo mellifluo e penoso di mettersi prima un profilattico umanitario (“certo bisogna aspettare i risultati delle indagini”), non hanno aspettato proprio nulla. Alcuni, già il giorno stesso, vittime della loro incontinenza retorica, si sono spinti oltre ogni umana prudenza con frasi storiche: “Fermiamo questa strage». Altri, sbarcati da pianeti lontani, non sapendo che dire hanno messo su un disco molto nuovo: “Il ciclismo deve avviare una riflessione...” (ma che riflettano loro, una volta, su come e perché stanno al mondo). Molti - i professionisti dell’antidoping - si sono subito messi a scartabellare nei loro monumentali dossier, ricordando i torbidi legami del vostro papà con quel loschissimo figuro di nome Francesco Conconi, uno che nella vita è rettore di università, nonchè scienziato eminente (bravissimo il vostro papà a rivolgersi a lui: tantissimi si rivolgono solitamente a maneggioni e praticoni). Tutto un coro di giudici implacabili, che dietro l’ipocrisia del vile preservativo (“certo bisogna aspettare l’esito delle indagini»), hanno attaccato subito sul cadavere del vostro papà l’etichetta del sospetto, un’etichetta che purtroppo nessuno andrà più sotto terra a staccargli.

Non sarebbe equo, qui, raccontare solo le nefandezze della categoria giornalistica. Certi metodi sono trasversali. Vogliamo parlare della magistratura? Anche in questo caso, i signori della legge che predicano sempre “il massimo riserbo”, querelando i cronisti colpevoli di divulgare le notizie da loro stessi fornite, si segnalano con una frase dagli effetti dirompenti: «È una morte strana». A pronunciarla, colei che in prima persona è chiamata a far luce sul caso, la signora piemme di Pordenone. A certi rotweiler del giornalismo basta molto meno per sentire l’acquolina in bocca, ha presente la gentile dottoressa che cosa significhi una frase simile in questi periodi? Se non lo sa, provi a figurarsi un esempio: prenda un cerino e lo butti nelle stive di una petroliera. Più o meno, ci siamo.

Infine, l’ambiente. Poteva forse mancare il fondamentale contributo dei Fanini di turno, pionieri della moralità e della rettitudine, da sempre schierati sul versante dei regolamenti, come dimostra la loro storia personale? Ancora prima che il vostro papà fosse sepolto, questa brava gente era già saltata su per rilevare come tutto questo fosse il bel risultato ottenuto a non ascoltarli, loro che in un attimo cambierebbero le sorti del mondo da così a così. Beati quelli che non si sottovalutano mai.

Poco importa, adesso, come si sia sviluppata in seguito la faccenda. La signora della legge, la stessa che così, a naso, aveva definito strana la morte del vostro papà, si è affrettata a comunicare dopo l’autopsia il fondato sospetto di una morte accidentale, dovuta persino a malformazioni congenite. In ogni caso, lei e tutti quanti gli altri, quelli che “fermiamo la strage”, quelli che “il ciclismo dovrebbe avviare una riflessione”, quelli che “io l’avevo sempre detto”, cioè la compagnia di giro che per un angolo di celebrità passerebbe sopra anche a due bambine di cinque anni e nove mesi, si sono riposizionati sull’attendismo. Alla fine, si sono convinti che prima di parlare bisogna avere in mano elementi certi. Convinti? Stavolta, per convenienza, forse. Ma al primo caso buono non riusciranno a controllare l’incontinenza della loro vanità. E allora, poveretto il prossimo.

Cara Anna, cara Paola: la colpa di tutti questi signori non è coltivare qualche dubbio. Purtroppo, le vicende dello sport hanno seminato molti tarli. La loro colpa, gravissima, è la mancanza di rispetto. È slegare il guinzaglio del proprio narcisismo. Ma scusanti non ce ne sono: davanti a una morte, davanti al lutto di chi sopravvive, bisogna essere capaci di tacere. Poi, senza fretta, arriva anche il tempo di discutere. Dopo, però. Non c’è polemica, non c’è lotta, non c’è argomento importante che valga una gazzarra attorno alla bara. Per tutto questo, è indubbio che qualcuno debba delle scuse a qualcuno. Anche se è dubbio che certi militanti della vanità siano capaci di scuse. Peggio per loro. Sappiate però già da adesso che il corridore - l’uomo - Denis Zanette non meritava tutto questo: indipendentemente da quanto dirà il gelido referto dell’autopsia. Siatene certe. Tanto vi dovevamo, noi gente del ciclismo. Poi, quando sarete più grandi, date retta soltanto alla mamma: lei saprà trovare parole più dolci e più calde per salvare la vostra idea di papà.

Cristiano Gatti, bergamasco, inviato de “Il Giornale”
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