Gatti & Misfatti
Chiamali paradossi

di Cristiano Gatti

Nell’ultimo numero di tuttoBICI, il capo ufficio stampa dell’Uci, Enrico Carpani, mi tira in ballo con l’accusa d’essermi lasciato prendere la mano contro la (sua) federazione internazionale. Non è certo per questo che gli rispondo: quando mi tirano in ballo persone del suo livello, anche per una pesante critica, mi fa soltanto piacere. Ho l’impellenza però di precisare un punto fondamentale della questione, che non posso lasciar passare sotto silenzio. Mi riferisco a quando Carpani definisce provocazioni paradossali alcuni passaggi di quel mio Gatti&Misfatti finito al rogo dell’Uci. Voglio essere subito chiaro: caro Enrico, quando dico che avanti di questo passo finiremo col dividere il ciclismo in due, da una parte grandi giri e grandi classiche autogestite dagli organizzatori, dall’altra l’Uci con le sue utopie di ciclismo mondializzato sotto l’insegna di un patetico Pro Tour, e quando aggiungo che ovviamente noi tifosi seguiremo soltanto il primo perché lì c’è il ciclismo vero, ecco, vorrei evitarti il fastidio di inventarti un’elegante eufemismo per sostenere che sparo petardi “paradossali”. Nessuna acrobazia, nessuna provocazione, nessun paradosso: anche se ti sembro pazzo da legare, sono riflessioni meditatissime, sono esattamente quello che penso, il solo risultato cui riesca a pervenire dopo mesi di attonita osservazione e di rabbia sorda.

Tu dimmi, caro Enrico, se la situazione attuale non è esattamente quella che purtroppo mi sono trovato ad evocare. Voi dell’Uci che continuate a fare la voce grossa, a non recedere di un millimetro e a minacciare vie legali. I grandi organizzatori di Tour, Giro, Vuelta e classiche-monumento che non ne vogliono sapere di piegarsi al diktat, e che anzi sempre più decisi coltivano il disegno della diaspora, per via di un ragionamento semplicissimo: noi da cent’anni siamo i padroni di questo spettacolino, perché mai di punto in bianco dovremmo lasciarcelo sfilare da Verbruggen senza neanche un tentativo di risarcimento?

Caro Enrico, ti risparmio anche la fatica di nuove spiegazioni, nuovi distinguo, nuove ricostruzioni. In questo sei maestro. Non lo dico perché di solito, prima di tirarsi torte in faccia, ormai bisogna sempre dare una lisciata. Lo dico perché lo penso: sei una delle persone più intelligenti, più sensate, più illuminate di questo nostro povero mondo. Purtroppo, sei finito in mezzo. E saltellare elegantemente tra due trincee da cui partono bordate feroci non è mai facile. So benissimo che hai mille argomenti per spiegarmi che ha ragione l’Uci. Per ricacciarmi in gola la tremenda bestemmia, cioè l’ipotesi di vedere l’Uci andare alla malora con il suo ciclismo di serie B, mentre tutti quanti continueremo a goderci quello vero degli organizzatori autogestiti. Purtroppo, è scaduta l’ora. Non interessa più capire chi abbia ragione. A questo punto, conta soltanto lo stato di fatto: siamo allo sfacelo, e rimettere insieme i cocci sarà molto arduo.
Sono sempre stato dalla parte delle istituzioni. Anche nel ciclismo. Vorrei precisare: non ho detto del potere e dei potenti. Ho detto delle istituzioni. Coltivo una venerazione, per le istituzioni. Mi viene dai miei studi sull’illuminismo, che mi hanno insegnato quanto siano indispensabili per la vita comune degli uomini le regole e chi le impersona. Ma proprio per via di questa venerazione non riesco più a stare dalla parte dell’Uci. Nemmeno a capirla. Come posso capire un’istituzione che assiste al crollo del mondo che dovrebbe tutelare, difendere, governare, e non fa nulla per salvarlo, se non esibire muscoli, orgoglio, narcisismo? Lo so, gli organizzatori hanno alzato il tono, spesso fanno gli arroganti, ancora più spesso pensano agli affari loro. Però l’istituzione, caro Enrico, è fatta anche per ascoltare, capire, e alla fine mediare. Abbiamo alle spalle molti momenti in cui un accordo sembrava vicino: bastava concedere un centimetro in più, invece si è preferito il muro contro muro, il braccio di ferro, e alla fine siamo finiti tutti a romperci le corna. Ciascuno ha le sue colpe. Come no. Però, caro Enrico, le vostre sono più colpe: perché voi siete l’istituzione, qualcosa di alto, di paziente, di tollerante (vogliamo dire, in termini giuridici, come un buon padre di famiglia?), e invece siete scesi a rotolarvi nella rissa come una controparte qualsiasi. Avete pensato più al business che alle regole. Avete fatto più il Pro Tour che l’Uci. Contro gente che apriva le bancarelle, avete a vostra volta aperto la bancarella. E via, con questo bel clima da mercato del pesce….

Caro Enrico, non so come cambierà la situazione in queste settimane. Qui, ogni giorno che passa, si leggono tremendi comunicati stampa, minacce cosmiche e bassezze d’ogni genere. Mi piacerebbe tanto che quando tu leggerai - questa cosa, tutto si fosse già risolto con un accordo capolavoro, tra gli applausi del popolo. Ma temo, fortemente temo, che non sarà così. E lo sai perché? Al di là e al di sopra delle colpe umane, oltre le meschinità del singolo interesse, sta mancando clamorosamente il prestigio, l’attendibilità, l’autorevolezza dell’istituzione. È esattamente la metafora che usano i fondamenti del diritto: quando vengono a mancare i criteri del buon padre di famiglia, questa famiglia è perduta. Senza scampo. Ci si ritrova tutti in tribunale, sotto un cumulo di macerie. Sai quanto importa, in mezzo alla distruzione, stabilire chi aveva ragione. La famiglia, purtroppo, non c’è più. E adesso dimmi pure che continuo a sparare paradossi. Non te ne vorrò, per questo. Piuttosto, stammi bene.
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