di Pier Augusto Stagi
Tecnicamente è nato alla Mangiagalli di Milano il 18 luglio del 1963, ma la sua incubatrice, culla e girello è stata la “butega”, quella di piazza XXV Aprile 19 a Cusano Milanino. Ha respirato fin da subito il sapore acre delle saldature accompagnato dalla ninna nanna di un martello che forgia un tubo. Sempre accanto a mamma Mariuccia, anima e guida della “butega”, capace di intrattenere il pubblico e tenere i conti del suo Ugo, senza però perdere mai di vista il suo bimbo, Cristiano.
Tecnicamente Cristiano De Rosa è nato alla Mangiagalli, ma l’erede di Ugo, il CEO di uno dei marchi di biciclette più conosciuto al mondo, una delle eccellenze più vivide del made in Italy sul suolo terracqueo, è cresciuto in quella “butega” dove papà Ugo si trasferì quasi subito per stare vicino al suo amore, alla donna della sua vita, alla sua Mariuccia. Da via Lanfranco della Pila al 13, zona Niguarda a Milano dove Ugo viveva e diede vita alla Cicli De Rosa nel lontano 7 aprile del 1953, a piazza XXV Aprile, a Cusano Milanino dove a tutti gli effetti Ugo iniziò la sua carriera di abile e illuminato telaista. Qui, tra queste mura, ha dato inizio al proprio lavoro forgiando con abilità e competenza biciclette che in un amen andarono ad arricchire la sua fama, che in breve tempo varcò i confini nazionali grazie ai gioielli creati per i più forti campioni del pedale.
Tecnicamente dovrebbe essere un anno di festeggiamenti, per i settant’anni compiuti dalla Cicli De Rosa agli inizi di aprile, ma la morte del Patriarca ha spiazzato tutti, in perfetto stile Ugo De Rosa, sempre portato a celebrarsi pochissimo, lasciando piuttosto spazio alle sue creazioni: le biciclette.
Cristiano, Danilo e tutta la famiglia De Rosa hanno presentato nelle settimane scorse “Settanta”, la bicicletta che rappresenta una storia infinita, elegante e filante come poche, leggera e carezzabile come tutte le De Rosa e per mostrarla al mondo è stata scelta la “butega”, dove sono nati tanti gioielli con il cuore e dove sono soprattutto cresciuti Danilo, Doriano e Cristiano.
Cristiano, la “butega” è tornata a casa.
«Esattamente. Diciamo che da qualche mese la De Rosa ha una casa in più, quella nella quale papà ha dato vita alle sue prime creazioni. Ho fatto appena in tempo a dirglielo, a fargli rivedere quello spazio che lui mi ha sempre indicato ogni qualvolta ci passavamo davanti e dove papà Ugo e mamma Mariuccia hanno costruito il loro e il nostro futuro. Sono felice di aver ricomprato quello spazio, che resterà per noi e spero non solo per noi, un piccolo scrigno della memoria De Rosa. Un piccolo spazio di ritrovo nel quale parlare di bicicletta, per ricordare una lunga storia d’amore: per la bicicletta».
Ha ricomprato la sua vera “culla”, dove ha respirato da subito aria di “butega”.
«Mamma ha sempre lavorato e io fin dai primi giorni di vita ero lì nella carrozzina a respirare aria di bottega. Papà aveva frequentato le scuole di avviamento professionale alla Ercole Marelli e, una volta finite, aveva scelto la bicicletta. Aveva anche provato a correre, ma come il sottoscritto si ritrovò ben presto a rincorrere.
Gambe così così, testa e mani da fuoriclasse e di questo se ne accorgono ben presto i Fratelli Volta di Dergano, tra la Ghisolfa e la Bovisa, in quella zona della vegia Milan che ispirò Giovanni Testori (Il Ponte della Ghisolfa, ndr) e Luchino Visconti (Rocco e i suoi fratelli, ndr). Fa telai di ogni tipo: da corsa e non solo. E nel frattempo anche nonno Emilio, papà del giovane Ugo, si mette il cuore in pace: niente Pirelli, che il ragazzo faccia quello per cui è nato. Una mano gliela dà la nonna “Marietta”, visto che Ugo ha solo 19 anni e per firmare un contratto di affitto è necessario averne 21. Il 7 aprile del 1953 nasce la Cicli De Rosa: via Lanfranco della Pila 1, zona Niguarda, a due passi da dove abitava con i suoi genitori, in via Antonio da Saluzzo».
Ma all’inizio non furono le bici con il cuore…
«All’inizio il cuore l’ha sempre usato per costruirle. Ma lo sa che inizialmente furono anche le Graziella, sì, la copia delle famosissime Graziella nate nei primi Anni Sessanta per volontà della Carnielli. Per arrotondare e pagare i conti, papà si mise a produrle (in quel periodo c’erano le bici da corsa, le Graziella e le Condorino, che erano le bici sportive, ndr) con la scritta De Rosa. Lo sanno in pochi, ma noi ancora oggi ne possediamo una, che ha una sessantina di anni. Erano gli anni della IGE al 4%, l’Imposta Generale sulle Entrate, che sarebbe poi stata sostituita dal ’72 con l’Iva. Papà produceva e mamma vendeva: biciclette, riparazioni e componenti».
Il primo marchio De Rosa?
«Uno scudetto biancoazzurro con tanto di arcobaleno iridato: sul lato di sinistra campeggiava il biscione di Milano, dall’altro doveva esserci una rosa, ma la tipografia Oppi di piazzale Maciachini, sbagliando, disegnò un giglio. Per un po’ l’ha tenuto così, poi l’ha modificato… Prima, però, per amore cambia sede: da Milano a Cusano Milanino. Da via Lanfranco della Pila, a piazza XXV Aprile. Lavorava come un matto e con lui mamma Mariuccia (per Ugo “Uccia”, sposata nel 1957, ndr), che ha sempre avuto un ruolo fondamentale: tirare su tre figli, seguire il negozio e far quadrare i conti. Lei è stata la vera commerciale della famiglia. Fuoriclasse assoluta. Sono di parte? Certo che sì…».
Anni di grande fermento e progettualità…
«Assolutamente. Nei racconti di papà e mamma c’è tutto e oggi il ricordo è il bene più prezioso. Oltre a loro due c’era inizialmente anche “Peppino”, Giuseppe Russo, un ragazzo con una volontà di ferro, che per una quindicina di anni ha lavorato a stretto contatto con papà e oggi è un apprezzato telaista nel mondo moto, la sua grande passione. In quel periodo papà Ugo prese anche un giapponese: Yoshi Aki Nagasawa, detto più semplicemente “Aki”».
E le prime biciclette per i corridori professionisti quando le fa?
«Fine anni Sessanta, in maniera quasi clandestina, oggi diremmo sotto banco. Nel 1973 comincia a produrle alla luce del sole. Sono verdi le prime biciclette della G.B.C. di Panizza, Francioni e Turrini. Ma è in quell’anno che papà viene chiamato da Eddy Merckx, per il quale già faceva qualcosa, però di non ufficiale. Stesso discorso anche per Francesco Moser, ai tempi della Filotex e poi alla Sanson, con le bici marchiate Benotto, ma che erano fatte da papà. Le tre vittorie alla Roubaix arrivano su biciclette nate proprio qui, a Cusano Milanino. Papà mi ha sempre raccontato che al Giro del 1974, su un centinaio di corridori, quasi ottanta correvano su telai costruiti da lui».
Chiude gli occhi e vede…
«Papà che salda e fa il cinema. Sì, il cinema. Con quel cannello faceva la luce blu, che era bellissima, e io e i miei amici alla sera passavamo ore a guardarlo. “Guarda, fa il cinema con le mani…”, dicevamo incantati. Che ricordi…».
Con la bicicletta è stato subito amore?
«Un amore assoluto. Papà mi chiamava “strolig”, che in milanese significa giostraio, zingaro e vagabondo. Perché ero sempre in bicicletta, non ne volevo sapere di scendere. Era il mio habitat naturale, il mio cavallo alato, il mio aquilone, il mio strumento di libertà. Ecco: sono rimasto un po’ così».
Ha corso in bicicletta?
«Ho più rincorso. Da esordiente alla Salus di Seregno, con presidente il glorioso Giuseppe Meroni, da allievo e juniores al Varedo e da dilettante di seconda serie al Gs Gerbi. Ricordo che in un ritiro di Alassio noi sei ragazzini avevamo speso in una settimana 110 mila lire di acqua, e il direttore sportivo aveva speso da solo 180 mila lire di vino. La sera precedente dell’arrivo del presidente al quale sarebbe toccato il compito di pagare i conti, il nostro diesse si raccomandò: “Ragazzi, dite che alla sera un pochino di vino lo bevevate anche voi…”. Non ricordo il nome, ma so che se lo portò via la cirrosi epatica».
Quando hai cominciato a lavorare?
«A sporcarmi le mani da bambino: ero sempre lì a lavorare attorno alle biciclette. A 18 anni ho cominciato a lavorare seriamente, in piena regola: era il 1981. Ho sempre fatto un po’ di tutto, senza eccellere in niente. Danilo (classe 1958) e Doriano (classe 1961), come telaisti erano molto più bravi del sottoscritto. Io penso di avere avuto la qualità di saper vedere. Ho appreso tanto e ho cercato di farlo un po’ da tutti».
Il primo lavoro quale è stato?
«Assemblare le biciclette, perché per la parte meccanica, nonostante fin da bambino mi avesse suscitato interesse, non ero tagliatissimo. Nell’assemblaggio della bicicletta, invece, ero più portato. In particolare mi toccava di diritto il montaggio della forcella, che non era una cosa né semplice né tantomeno banale. Era piuttosto antipatico. Quando hanno inventato le forcelle in carbonio, mi sono reso libero da un’incombenza grandissima. Ma oltre a questo, ho cominciato subito ad avere rapporti commerciali con i negozi: andavo dai clienti. Era il 1983-84. Nell’85 per la prima volta con Ugo siamo andati negli Stati Uniti e nell’87 in Giappone, dove però avevamo rapporti fin dal 1969. I primi clienti? La Toshoku FET, distributori della Cicles Yoko, che compra De Rosa ancora oggi. Il primo cliente americano è arrivato invece nel 1968 ed era un negozio texano che si chiamava Cicli Talbots. Erano venuti loro: il signor Talbots, quell’omone imponente e gentile, con i suoi baffoni d’ordinanza, lo ricordo ancora benissimo. Fu lui che da ragazzino mi aveva regalato la mazza da baseball e il pallone ovale da football americano che mi fece guadagnare un sacco di punti agli occhi dei miei amichetti di Cusano Milanino».
Come faceva papà a comprendere giapponesi e americani?
«Con i giapponesi l’Ambasciata manda un interprete, con gli americani si capivano a gesti: e si capivano».
Insomma, con lei la De Rosa ha a tutti gli effetti trovato un direttore commerciale…
«Direi di sì, anche se quasi subito tra i compiti che ho assunto c’era anche il rapporto con i team. Dall’85 con la Ariostea di Gian Carlo Ferretti comincio a seguire le squadre».
Un ricordo.
«Milano-Sanremo 1989, terzo Adriano Baffi, alle spalle di Fignon e Maassen. Ricordo indelebile. Ma non posso avere nel cuore il successo di Giorgio Furlan alla Classicissima nel ’94».
Il Giro vinto da Evgeni Berzin sempre nell’94?
«Grandissima vittoria, ma quelle due, non me ne voglia Eugenio, sono di una emozione inimmaginabile».
Un momento difficile?
«Ricordo che prima della Sanremo la Ariostea era alloggiata all’hotel di Assago e Ferretti chiama Ugo perché quell’anno - era il 1987 - la Clement decise di uscire con dei palmer interamente neri. Come colpo d’occhio era piuttosto forte. Il mercato non era ancora pronto e men che meno era pronto Ferron, che con papà si mise a discutere, con grande rispetto, ma con la proverbiale fermezza propria del “sergente di ferro”. Per la prima volta, ci ho messo del mio, con una buona mediazione tra le parti. L’Ariostea corse con i palmer tutti neri, che in quel periodo non erano assolutamente cool».
Mi sembra che lei sia soprattutto un mediatore…
«Cerco di esserlo».
Lei si arrabbia?
«Non fatemi litigare…».
Peggio di Ugo?
«Sì, molto peggio di Ugo, che quando si arrabbiava era meglio girare alla larga. Come si dice: acqua cheta spacca i ponti…».
Mamma è invece più fumantina…
«Diciamo di sì».
Quante volte hai visto Ugo arrabbiato?
«Penso quattro volte in tutta la mia vita. Non di più. La sua capacità era quella di evitare il litigio, faceva di tutto per non arrivare al limite, allo scontro. Diciamo che era l’opposto di Vittorio Sgarbi… (ride)».
Ha avuto mai un corridore del cuore?
«Eddy Merckx, 525 corse vinte. Nessuno come lui. Il più forte di tutti, per me anche il più grande. Un atleta pazzesco, ma soprattutto un uomo fantastico. In questo ultimo periodo molto difficile e complicato per tutti noi, lui è stato vicinissimo alla nostra famiglia e quando è venuto a mancare papà non si è dato pace. Quando papà era in ospedale ci chiamava due volte al giorno. Nella camera ardente il suo dolore era il nostro».
Come ha conosciuto Desirée, sua moglie?
«Avevo 18 anni, avevamo la “butega” a Cusano Milanino, ma abitavamo a Palazzolo Milanese. Un giorno, passeggiando con Edo, il nostro cane pastore, ho conosciuto Desy. Le nostre strade si sono incrociate e i nostri occhi si sono persi in quelli dell’altro».
Amore a prima vista?
«Direi di sì».
Cosa non sopporta?
«La superficialità».
Colore preferito?
«Il blu».
Canzone preferita?
«Smoke on the water dei Deep Purple».
Il Film?
«La Febbre del sabato sera: non so quante volte l’ho visto».
Attore?
«Jason Michael Statham si esprime poco, mena tanto e con lo sguardo illumina».
Attrice?
«Nicole Kidman».
Un cantante italiano?
«Lucio Battisti su tutti. Però sto seguendo tantissimo Calcutta».
Per la gioia dei suoi figli.
«L’aspetto più importante è essere predisposti all’ascolto».
Di cosa vai più fiero?
«Del marchio De Rosa».
Di cosa si sente di essere grato a papà Ugo e mamma Mariuccia?
«Dei valori che ci hanno trasmesso».
Danilo.
«È il fratellone, passionale e appassionato. È un tecnico molto molto affidabile. Ha una conoscenza profonda della bicicletta e per noi è chiaramente un valore aggiunto».
Doriano.
«Mai banale, credo che il suo percorso telaistico sia noto a tutti, sono undici anni che ha un suo atelier, un suo marchio, ma ha in ogni caso sempre delle quote in De Rosa, fa sempre parte della nostra famiglia».
Come vede i suoi ragazzi?
«Sono tre ragazzi chiaramente molto diversi. Nicholas ha 32 anni (è del ’91, ndr) ma ha le idee maledettamente chiare. Oggi lui ricopre tre ruoli: organizzazione della fase della verniciatura; scelta estetica della collezione (art director); commerciale: ha chiuso tre vendite con clienti nuovi molto interessanti».
Federico.
«Lo vedo corporate. Nel senso che è molto aziendale (26 anni). Dove c’è il marchio c’è legato un suo pensiero. Si occupa della spedizione e del controllo qualità dei prodotti».
Francesco.
«Se lo inquadri bene è in grado di tirare fuori colpi da fuoriclasse. Ha delle grandi intuizioni ma, per i suoi 23 anni, è ancora un po’ acerbo. Ha però una parte creativa e comunicativa che mi piacce molto e, se devo dire, ha preso un lato molto particolare di nonno Ugo: se uno gli è simpatico, comunica di più».
Ha un sogno nel cassetto?
«Onestamente sono contento così».
Così avrebbe risposto anche papà Ugo.
«Credo di sì».