Ciao Ercole, ciao Vittorio
di Gian Paolo Ormezzano
Ciao Ercole, ciao Vittorio. In pochi giorni. Per me Baldini era anche Wanda, la moglie che mi teneva al corrente delle imperdibili vicende amorose della famiglia del mio amico e loro amicissimo Anquetil (“con tutte le donne che ha avuto e che ci ha presentato, dovrei farti un disegnino genealogico pieno di nomi e date e ascendenze-discendenze, come si fa per i regnanti, i nobili”). Per me Vittorio era anche la moglie Vitaliana piemontese come me, nata al Mottarone, primo monte delle mie villeggiature da bambino torinese, adesso per tutti il nome della funivia della tragedia, Vitaliana azzurrina dello sci ma soprattutto come me tifosa del Toro (“quando c’è il derby della Mole cucino apposta male per Vittorio, che si sgranocchi la sua Juve amatissima”). È che c’erano rapporti diversi fra corridori, anche campioni, e giornalisti, e fra giornalisti e ciclismo tutto. Ho scalato amichevolissimimamente tanti corridori anche celebri, da Balmamion a Zilioli magari parlando in dialetto, a Nencini e Saronni e Motta e più di tutti Moser, passando per il mio gran Gimondi che mi mandava a Torino le sue due bambine che volevano veder da vicino il bel Cabrini, già da me presentato alle due bambine mie ancorché juventino, e avanti, da Dancelli a Chiappucci, e anche a stranieri celebri, tipo Gaul antipaticuccio e Merckx amicone e Hinault, fermandomi senza afflati reciproci a Pantani 1999 e 2000, a cavallo dei millenni, ultimo Giro e prima Olimpiade.
Ho patito e goduto sempre, per ventinove Giri d’Italia, quindici Tour de France e un’infinità di altre corse una sorta di consorteria, e pazienza se a tratti mi appariva complicità: quando sapevo, sapevamo di un qualche inghippo però tutti insieme lo tacevamo per amore del nostro mondo che doveva risultare sempre immacolato puro. Ero ormai dirottato su tanto altro sport quando mi presi, con tanti, lo schiaffone del doping di Armstrong, ne scrissi poco e non scrissi che se in fondo uno come lui, minato giovane da un cancro tremendo, aveva messo insieme quella carriera, ricchissima comunque di strapotenza atletica, magari le sue praticacce facevano al fruitore del bene più che dal del male: prevalse alla fine, sia pure faticosamente, il senso assoluto dell’onestà, in fondo lui aveva barato e dunque “pussa via”.
Nei miei assolutamente troppi settanta anni di giornalismo fortunato ho seguito ovviamente tanto calcio ma anche tanta Olimpiade (venticinque Giochi ) tanta atletica tanto nuoto tanto basket tanto sci tanto automobilismo, mai però riuscendo, in nessun ambiente, a reperire il senso dello “stare tutti sulla stessa barca” che mi diede il ciclismo, quel ciclismo. Mentre scrivo queste righe penso che l’eventuale lettore di esse se ne freghi, ma io mi sento come chi teoricamente si svuota di una sorta di debito. Chiedo scusa ma vado avanti. Chiedo scusa se faccio archeologia tristanzuola, magari parlando di divinità oscure ai giovani di oggi, ingozzati di tanto sport altro, sottoposti a teletrucchi e telemanipolazioni continue di rappresentazione, insomma una droga, altro che doping. Se devo offrire, infliggere una frase che mi assolva e intanto spieghi qualcosina, scrivo: ma come mai il ciclismo non impazza (felicemente, per me) sulla playstation, ad onta delle sue valenze spettacolari, ambientali, paesaggistiche, addirittura ecologiche?
Mi àncoro a questa domanda, e magari tanti stanno sghignazzando perché la playstation ciclistica c’è ma io mi ostino a non vederla, a non volerla. E forse è già playstation tutto quello che la tivù-Rai dello sport ci propina con il ciclocross: dove fachiri della neve e del freddo e del fango pedalano, corrono, scivolano, cadono in sentieri fiancheggiati da siepi di folla ridens. Realtà o roba di studio? E magari la pista è da sempre playstation e non l’ho mai capito.
Divago, forse svago soltanto qualche vecchione come. Però voglio chiudere nella stessa chiave sospirosa dell’inizio, e allora ammollo, infliggo il ricordo di due ragazzotti giornalisti o quasi che appena concluso il festival di Sanremo partivano per la riviera ligure dove intervistare i ciclisti che stavano preparando la nuova stagione. I due partivano dopo avere comprato “Il Canzoniere”, libriccino quadrato e copertina semirigida fulmineamente in edicola a poche ore dalla fine della grande sagra della canzone italiana e recante le parole di tutte le canzoni appena eseguite e divulgate, cantavano in auto i successi e gli insuccessi e si proponevano di parlarne eccome con i ciclisti che avrebbero trovato nella città dei fiori e dintorni. Partivamo da Torino, dalla redazione di Tuttosport dove eravamo abusivi felici, guidavo io, il mio compagno e compare si chiamava Gianni Minà, dice qualcosa?