Chiariamoci bene sulla squadra italiana
di Cristiano Gatti
E via, un’altra stagione è finita, una nuova sta già per cominciare, e noi italiani siamo sempre a scambiarci lo stesso slogan: “Ci vorrebbe una squadra italiana”. È il tormentone dell’estate e dell’inverno, in qualunque sede e in qualunque momento sappiamo dire ormai solo questo. Non c’è niente di male, è sicuramente un buon proposito e un bel pensare, ci mancherebbe. Però forse sarebbe il caso di specificare un po’ di più, un po’ meglio, che cosa s’intenda per squadra italiana. C’è modo e modo di fare una squadra italiana, soprattutto c’è modo e modo di considerarla come una - o “la” - soluzione per uscire gradatamente da questa epoca cupa e tenebrosa.
Chiarire bene non è aggiungere chiacchiere a chiacchiere. È un modo per capirsi tutti quanti e definire come si deve un’ipotesi. Dopo tutto, è già inesatto dire che servirebbe una squadra italiana: grazie al cielo, ma grazie soprattutto allo zio Reverberi e a Ivan Basso, squadre italiane di un certo pregio le abbiamo già (volesse il cielo che non si debba cancellare dal radar quella di Gianni Savio, ma mentre scrivo la situazione è ancora molto precaria). Tra l’altro, sono squadre italiane diciamo così in modo sostanziale, al di là e al di sopra dei tanti artifici fiscali che portano fuori discorso, dico italiane davvero perché comunque scelgono, reclutano, crescono soprattutto talenti (più o meno talenti) italiani. Conosciamo il ma-se-però: non sono di serie A. Giocano nei campionati minori, salvo comparsate a invito nel grande circuito. Dunque, siamo anche alla prima precisazione: tutti intendiamo che servirebbe una squadra italiana di World Tour, cioè di budget e caratura superiori. E questo è uno.
Subito a seguire c’è il punto due: servirebbe italiana, grande, danarosa, e questo ormai è chiaro, ma dovremmo anche specificare se italiana come portafoglio oppure italiana anche come personale tecnico e soprattutto come organico dei corridori. Non è una questione formale: è sostanziale. Provo a essere più chiaro: l’ultima epoca del ciclismo mondiale è segnata indelebilmente dal fenomeno inglese, che a un certo punto - si dice per preparare le Olimpiadi di Londra, si dice per lungimiranza ecologica - mette in piedi un monumentale sistema, senza badare a spese, per svezzare e rendere adulto il suo ciclismo. Nello specifico, nasce il fenomeno Sky, ora Ineos, che stravolge a suon di bigliettoni tutti i parametri del sistema. Saltando tutte le questioni che si possono sollevare, domando: davvero possiamo dire che la Sky-Ineos è una squadra inglese che ha fatto decollare l’intero movimento inglese? Come moda, come costume, come propaganda, sicuramente sì. La bicicletta è diventata centrale nella vita inglese anche grazie a questo. Ma si può dire lo stesso guardando solo il versante dell’agonismo? Vediamo: di veramente britannico ricordiamo Mark Cavendish, Bradley Wiggins, Chris Froome, ma anche Geraint Thomas e i gemelli Yates, fino al giovane Pidcock. Effettivamente niente male per una memoria come la nostra che grosso modo si era fermata a Tom Simpson. Allora, si può ragionevolmente concludere che sì, avere una squadra inglese è davvero servito a creare - o a risollevare - un intero movimento.
Certo, tutti sappiamo bene che la Sky-Ineos ha dovuto un po’ imbastardirsi per restare stabilmente a certi livelli, sul tetto del mondo. Gli inglesi sono andati di volta in volta a pescare in tutto il mondo, dalla Colombia all’Ecuador, da Bernal a Carapaz, eccetera eccetera. Tanto che a un certo punto ci siamo ritrovati a considerare questa squadra più una multinazionale che una squadra inglese. Ma resta il fatto che da anni si pensa alla Ineos e subito si vede il Regno Unito, nuova superpotenza mondiale del ciclismo. Una delle, magari. Certamente la più duratura e la più spendacciona.
Come la vogliamo perciò, ricapitolando, la nostra squadra italiana? La vogliamo con lo scheletro e l’anima italiana, solo italiana, o multinazionale a trazione italiana? Mi pare di non dire originalità sostenendo che giocoforza, almeno all’inizio, non possa essere tutta italiana. C’è una strettoia all’origine che dobbiamo affrontare: per fare una squadra italiana di World Tour servono tanti soldi, chi li mette non può certo accettare di metterli per fare la comparsa - se non il materasso - in giro per il mondo. Per quanto tollerante e paziente, ha bisogno per il suo impegno finanziario e il suo prestigio di qualche risultato. Come corridori all’altezza, ammesso di reclutarli tutti, di questi tempi noi possiamo offrire solo Ganna e Bettiol, per certe cose e certe corse. Poco altro, pochi altri. Qualche speranza, questo sì, ma non del livello che stiamo considerando. Non subito, di certo. Se immaginiamo che un grande finanziatore scenda in campo per fare un’altra Bardiani o un’altra Eolo, stiamo uscendo dalla logica: nel ramo allevamento talenti sono già molto bravi i Reverberi e i Basso (spero sempre di aggiungere Savio). Per il tutto e subito serve davvero qualcosa di diverso: servono le grandi forze e i grandi numeri. Così, la sognata squadra italiana, la nazionale italiana di club, dovrebbe - dovrà - essere multinazionale. Non se ne esce. E cara grazia se riuscirà comunque a mantenere, per ispirazione e per statuto, una robusta ossatura italiana. A qualcosa di simile, peraltro, ci siamo avvicinati recentemente, nella scorsa primavera, con Cassani che aveva ottenuto l’entusiastica adesione di Carlo Pesenti, salvo poi vederci tutti cadere la mascella per problemi interni alla cordata degli sponsor (mettiamola così). Il sogno di una notte di mezza estate e poi di nuovo il nulla. All’indomani, abbiamo ricominciato mestamente con la solita litania: servirebbe una squadra italiana, servirebbe una squadra italiana...
Al momento, ci restano la speranza, qualche voce sommersa, e anche un po’ di languore. A livello teorico, invece, siamo fortissimi: io non faccio che incontrare gente preparatissima, ciascuno pronto a farmi lo schemino di come dovrà - dovrebbe - essere lo squadrone Made in Italy della riscossa. Un paio di campioni stranieri a fare da traino e tante promesse nostre. No, partenza con calma e pazienza, puntando sulla crescita dei giovani italiani. Meglio una squadra per i grandi giri, no meglio cominciare dalle classiche dove siamo messi meno peggio. È stupido scegliere, si fa la squadra completa e si compete ovunque.
In ogni caso, abbiamo veramente tutto quello che serve per la squadra dei sogni: storia, tradizione, tecnici, cultura. Dopo tutto, mancano solo i corridori e i soldi. Dettagli, si fa in un attimo.