di Pier Augusto Stagi
Alla fine il tabù è stato sfatato, con una volata che è l’immagine simbolo del rapporto tra la “corsa rosa” e Giacomo Nizzolo: un lungo, lunghissimo e interminabile inseguimento.
Vince nel momento in cui capisce d’aver perso. Vince nel momento in cui percepisce chiaramente che Edoardo Affini sta facendo qualcosa di eccezionale, con un allungo mostruoso da grandissimo “finisseur” e cronoman portato a seicento metri dal traguardo. Una lunghissima e rabbiosa progressione che Nizzolo comprende prima di altri: si è fiondato sul mantovano come se non ci fosse un domani e difatti il domani non c’era, perché quella di Verona era in pratica l’ultimo sprint utile per gli uomini veloci.
«Sì è andata proprio così - mi racconta Giacomo dopo qualche giorno dal suo “buon retiro” svizzero -. Quella per me è stata “ora o mai più”. Una progressione disperata, nella quale ho davvero messo sui pedali tutta la mia rabbia, tutta la mia disperata voglia di vincere finalmente una tappa al Giro d’Italia. C’ero già riuscito, in verità, a Torino nel 2016, ma fui declassato per una scorrettezza che io considero ancora oggi ingiusta. Vabbè, acqua passata».
L’acuto all’ombra dell’Arena arriva da un milanese doc, cresciuto in zona San Babila, ad un passo dalla Scala e dal Duomo. Per lui al Giro la bellezza di undici secondi posti e cinque terzi, mai nessuno come lui. Sottovalutato tante volte, Giacomo si prende con gli interessi ciò che riteneva suo già da tempo. «È stata davvero una liberazione, per mille e più motivi. Per il traguardo, che era quello dei due Mondiali (1999 e 2004, ndr) dello spagnolo Oscar Freire. Per il significato, per la fatica e per l’attesa, per aver vinto anche sull’uscio di casa di Elia (Viviani, ndr) che come me ci teneva un sacco e nessuno dei due poteva più sbagliare. Insomma, non è stata una volata semplice, né tantomeno scontata».
Nizzolo ha 32 anni ed è l’unico corridore con due maglie: campione italiano ed europeo.
«Però, come ho avuto modo di dire subito, quella giornata di Verona ha dato un senso alla mia carriera, era qualcosa che mi mancava - spiega il campione della sudafricana Qhubeka Assos, che al Giro ha vinto anche con Schmid a Montalcino e Campenaerts a Gorizia -. Io sapevo che il mio valore non era legato a questa tappa, ma la vittoria chiude un cerchio. E Verona era l’ultima volata utile per noi velocisti».
Prima di vincere all’ombra dell’Arena, lui che è cresciuto a due passi dalla Scala, si era dovuto accontentare, nuovamente, di due secondi posti, a Novara e Cattolica.
«Però non mi sono mai perso d’animo, sentivo di avere una buona esplosività, anche se in salita, fin dall’inizio del Giro, non mi sono mai sentito a mio agio, io che tra i velocisti sono tra i pochi che sa gestirsi anche quando la strada tende a salire».
Giacomo è un perfezionista, che guarda tutto, anche la forma, che per lui è anche sostanza. Caschi firmati, con tanto di autocertificazione, non di autenticità, ma di originalità: «Ho voluto ricordare in modo ironico e simpatico la situazione che ci ha colpito, sperando che non ci siano più bisogno di carte del genere. C’è scritto “da Torino a Milano, viva il Giro”. E per onorare l’Italia ho fatto questo casco Tricolore, penso di aver strappato un sorriso agli italiani».
La moto la sua passione. Milano nel cuore e sulla pelle.
«Ho un tatuaggio con una frase eloquente: ‘O mia bela Madunina’. È una città che amo profondamente e sono orgoglioso di essere uno dei pochissimi corridori cittadini del gruppo. Dopo due maglie ciclamino un Ambrogino d’Oro? Magari…».