Kometa Xstra. Basso e Contador: «Pronti per crescere ancora»

di Nicolò Vallone

Due colleghi, due campioni, due amici. Due hermanos, come si definiscono. Dopo aver pedalato insieme nel 2007 alla Discovery Chan­nel e nel 2015 alla Tinkoff, Ivan Basso e Alberto Contador ora condividono sogni e progetti: dal 2018 sono, rispettivamente, sport manager e proprietario della Kometa-Xstra, formazione Continental che appartiene alla Fondazione Contador (in quell’anno la squadra nacque come Polartec-Ko­me­ta; nel 2019 ha acquisito l’attuale denominazione). Gestita da Fran, fratello maggiore del Pistolero, la Fon­dazione ha preso vita 10 anni fa per diffondere la sana pratica ciclistica tra i ragazzi e finanziare la lotta all’ictus, ma­lattia che nel 2004 colpì proprio Alberto, all’epoca ventunenne. Come nelle migliori scalate, i fratelli Conta­dor hanno prima allestito una scuola di ciclismo, in seguito hanno aggiunto la formazione junior, poi l’under 23, infine la Continental. Con l’obiettivo di salire ancora più in alto, con costanza ma pensando sempre step-by-step, co­me i veri fuoriclasse insegnano.
Giunto al terzo anno nella terza categoria del circuito UCI, il team Kometa-Xstra (di licenza spagnola ma dall’anima italiana: oltre a Basso, nello staff tecnico è presente Dario Andriotto, nella compagine di sponsor c’è tanta Italia e, su dodici corridori, quattro sono nostri connazionali) è stato presentato ufficialmente per la stagione 2020 il 27 gennaio, in uno splendido resort a metà strada tra Valencia e Ali­cante. Nell’occasione, abbiamo avuto modo di scambiare una lunga chiacchierata con Basso e Contador. Una conversazione che, rimanendo nello spirito delle scalate, è partita dalle basi, dalla Kometa, entrando successivamente nel mondo dei World Tour, dei big e dei massimi sistemi del ciclismo attuale.
Cosa chiedete alla squadra e alla stagione che sta per cominciare?
Basso: «Prima di tutto, di continuare a rispettare i valori della Fondazione Alberto Contador, che forma ragazzi a partire dai bambini di 6-7 anni. Anche nelle categorie più alte, coltiviamo ri­spetto, altruismo, impegno negli studi. Quante volte si sente dire “Quello ha molta testa ma poche gambe” oppure “Ha molte gambe ma po­ca testa”: noi cerchiamo di allenare il talento giorno dopo giorno».
Contador: «Consolidare la nostra reputazione a livello internazionale e farci apprezzare per la nostra filosofia. L’an­no scorso abbiamo lanciato quattro corridori nel World Tour: Michel Ries, Juan Pedro Lopez, Stefano Oldani e Carlos Rodriguez».
Alberto, quest’anno hai lanciato la tua linea di biciclette (il nome del brand sarà svelato solo a marzo, ma le bici sono già utilizzate dalla squadra e saranno sul mercato tra maggio e giugno) ponendo fine alla partnership con la Trek. Perché questa scelta?
C: «Io e Ivan siamo persone a cui piacciono le sfide, e questa lo è. Fin da quando preparavamo le grandi corse, ne parlavamo: “Io cambierei questo, questo, questo…” e finalmente abbiamo preso la decisione: vogliamo che dei corridori che hanno vinto tanto come noi possano utilizzare la loro competenza e sensibilità per costruire delle bici destinate sia agli agonisti che alle altre persone, anziché lasciare che siano i vari brand a costruirle. Lavori tutto un anno per una gara, e puoi vincere o perdere per un secondo: chi ha corso grandi giri può conoscere i piccoli dettagli che fanno la differenza».
B: «Sì, anche se ci siamo ritirati dall’agonismo abbiamo mantenuto la voglia di fare nuove conquiste. I primi a sapere della nostra scelta sono stati i vertici della Trek, e loro ci hanno risposto “Buona fortuna, la porta qui per voi è sempre aperta”. E non erano frasi di circostanza».
Non c’era anche un problema di regolamenti? Voi non potevate prender parte alle gare a cui partecipava anche la Trek Se­gafredo. Con questa scelta vi siete in un certo senso svincolati…
B: «Questa può essere una motivazione tecnica, ma in realtà prima era più co­modo per noi. Ora ci siamo messi in una situazione più difficile. Ma volevamo applicare anche in un altro campo la stessa voglia di emergere di quando eravamo corridori. E questo ci ha fatto guadagnare il rispetto di Trek: hanno visto che abbiamo lavorato con loro in modo serio e proficuo, e abbiamo mantenuto un certo feeling con loro».
Tra i vostri corridori, chi può essere la grande rivelazione quest’anno?
C: «Mathias Larsen, il danese».
B: «Difficile fare nomi. Verrebbe da dire Alessandro Fancellu, ma la squadra ha un ottimo equilibrio. La vera sorpresa dell’anno sarebbe aumentare il numero di ragazzi pronti a fare il sal­to di categoria. E lo faremo attraverso un calendario importante, non da semplice Continental: le prime tre corse sono Challenge Mallorca, Vuelta Valen­ciana e Tour of Antalya, dove in genere ci sono una decina di top team. Certo, Larsen, Fancellu, Puppio hanno numeri da paura».
Dal 2017, quando la ex Lampre è diventata emiratina, non ci sono squadre italiane nel World Tour. Da cosa dipende? C’è possibilità in futuro di rivederne?
B: «Come dice sempre Alberto, trovare degli sponsor è difficile come vincere i grandi giri… Ma allo stesso tempo, non è vero che non ci sono soldi. Ci vogliono tempo e credibilità per far vivere ai potenziali sponsor il proprio team. Bisogna far capire all’imprenditore cosa può fare la sua azienda grazie alla squadra, e viceversa. Io posso parlare per il nostro progetto: noi, e so­prat­tutto il general manager Fran Con­tador, stiamo lavorando in questa direzione, con la stessa determinazione che Alberto e io avevamo da ciclisti. E sono convinto che arriveremo dove vo­gliamo».
Parlando di squadre più in generale, qual è quella che ammirate di più?
B: «La Jumbo Visma. Di anno in anno, una crescita incredibile. Dimostrano di avere le giuste idee per trovare i soldi e spenderli bene. Non sono piovuti dal cielo 25-30 milioni di euro: si sono guadagnati credibilità coi risultati, in un periodo, oltretutto, di “sudditanza psicologica” degli sponsor nei confronti di Sky e Ineos. Evidentemente loro hanno uno staff di persone competenti e affiatate. Quello che proviamo a replicare nel nostro piccolo alla Kome­ta-Xstra: Alberto, io, Jesus Hernandez (fedelissimo gregario di Contador, di­rettore sportivo della Kometa, ndr) ci ca­piamo prima ancora di esserci parlati. Questo serve».
C: «Sono d’accordo, penso sia l’unica squadra che possa realmente lottare con Ineos».
Dal vostro punto di vista di dirigenti di un team, cosa cambiereste nell’attuale sistema UCI?
C: «Gli sponsor hanno un’importanza enorme nell’economia di una squadra che ambisca a salire di livello, anche perché non sono previste remunerazioni per il trasferimento di un corridore. Tu lavori con un giovane tanti anni, poi arriva un team del World Tour che lo ingaggia, magari direttamente dalla tua formazione junior, e tu non puoi ac­campare nessun diritto. Bisognereb­be premiare chi forma e lancia i talenti».
B: «Far correre i ragazzi costa migliaia di euro all’anno, poi passano di categoria e tu non vedi un soldo. Così non funziona».
Come vedete la situazione del movimento ita­liano (Ivan) e di quello spagnolo (Al­ber­to)?
B: «In Italia ci sono due rappresentanti principali: Nibali, che ancora alla sua età convince e calamita il pubblico, e Viviani, tra i migliori velocisti al mon­do. In generale, i risultati della Na­zionale italiana nei Mondiali degli ultimi 2-3 anni, sia a livello pro che dilettanti e giovanili, vedi il titolo iridato di Battistella, fanno ben sperare. Il c.t. Cassani, coi suoi stage e il suo lavoro, sta tenendo in salute il movimento».
C: «In Spagna c’è un cambio generazionale. Valverde è il nostro Nibali, è uno dei favoriti per le Olimpiadi di Tokyo, ma va per i 40 anni. Dietro di lui, ci so­no corridori buoni che però non si so­no confermati, come Landa. Altri possono ancora migliorare, penso a Mas e Soler della Movistar, e Cortina della Bah­rain. Ma sicuramente stiamo attraversando un momento difficile rispetto all’ultimo decennio».
Abbiamo accennato alle prossime Olim­piadi. Ivan, riuscirà Viviani a difendere l’oro su pista nell’Omnium? Alberto, co­me vedi la corsa in linea?
B: «Viviani lo conosco bene, avendo passato quattro anni insieme alla Li­quigas. Ha davanti a lui annate importanti perché si è saputo costruire un entourage di fiducia, che rema nella sua stessa direzione. Ed è un professionista molto serio: cura tutti particolari, dal manubrio alle tacchette. Nelle gare in cui è chiamato a fare risultato non sbaglia…».
C: «Quella in linea sarà una gara bella, con tante salite. Come detto, Valverde è uno dei 3-4 favoriti. Andrà al Tour de France per preparare Tokyo. In­sieme a lui, Alaphilippe. Certo, dovranno guardarsi da gente che corre bene come Moscon o Van der Poel, ma i grandi favoriti sono lo spagnolo e il francese».
Ecco, Alaphilippe. Vincitore di ben tre grandi classiche: il 2020 segnerà la sua de­finitiva consacrazione?
C: «Si è già consacrato. Gli appassionati si devono ancora riprendere dopo aver visto quello che lui ha fatto al Tour, come si è difeso in salita e come ha vinto la cronometro contro Thomas, nonostante sia teoricamente un corridore da corse più brevi. Incredibile!».
B: «Vincere crea consapevolezza e lui è ancora in fase di crescita. Quest’anno avrà ancora più chance».
Passando a corridori che vengono da una stagione difficile, cosa pensate di Aru?
B: «Deve ritrovare il piacere di andare in bici e abbassare l’asticella. Non perché non abbia possibilità di riottenere determinati risultati, ma quando non sei più abituato accumuli insicurezza. Meglio allora porsi piccoli traguardi intermedi per tornare a vincere e riacquistare sicurezza, per provare a tornare sui livelli che gli competono».
C: «Deve recuperare non solo sul piano fisico, ma anche mentale. È un grintoso attaccante, mi piace. Quando va forte, va proprio fortissimo, è spettacolare».
A proposito di recuperi, Froome rientrerà al Tour degli Emirati otto mesi dopo il grave infortunio…
C: «Tornerà come prima. Nelle avversità, quando la gente pensa che non saranno più gli stessi, i grandi campioni trovano le motivazioni per lavorare ancora più duro. Ed è completamente diverso ritornare a inizio stagione ri­spetto che ad annata in corso: tutti ri­partono da zero, e questo gli renderà più agevole la risalita al top».
B: «Dai grandi periodi d’assenza si può tornare ancor più forti di prima. Lo ab­biamo dimostrato anche Alberto e io».
Da un ritorno eccellente a una “prima volta”. Sa­gan al Giro d’Italia: farò bene?
C: «Peter è carisma, è spettacolo. È una bella notizia per il Giro e per il ciclismo. E a lui il Giro piacerà, ha anche vis­suto in Italia: se lo conosco abbastanza, darà più spettacolo alala corsa rosa che al Tour de France».
B: «Sì, al Tour ha già vinto quello che doveva: la maglia verde, le tappe che po­teva portare a casa… Lì può solo ripetersi, quindi ha azzeccato la scelta di misurarsi col Giro. Ci sono quelle 8-10 tappe adatte a lui, con arrivo in vo­lata, di media difficoltà. Nei primi due giorni ha buone possibilità di mettersi la maglia rosa. E punterà alla maglia ciclamino».
Se guardiamo ora al ranking UCI, in te­sta c’è Roglic. Quanto può confermarsi su questi livelli?
C: «È esploso tardi ma sta avendo un rendimento pazzesco. Allo scorso Giro c’è andato vicino ma non è riuscito a vincere, alla Vuelta invece sì. Sarà interessante vedere cosa succederà al Tour de France: dipenderà da chi la Jumbo-Visma sceglierà come leader tra lui e Dumoulin. Da qui a luglio hanno molte gare per decidere».
B: «Quello che mi colpisce dello sloveno è la convinzione nei propri mezzi. Nelle interviste lui dice “Il favorito so­no io” ma non con un’aria da bullo: si ve­de che ci crede veramente. E come Al­berto ben sa, il primo passo per vincere il Tour è pensare di poterlo effettivamente fare».
A bruciapelo: i giovani più promettenti del circuito?
B: «Questo è il poker d’assi: Evene­poel, Van der Poel, Pogacar, Van Aert».
Da corridori emergenti a movimenti emer­genti. Ultimamente abbiamo vissuto il boom del Sudamerica, con in testa Quin­tana, Uran, Bernal e Carapaz. A cosa è dovuto?
B: «I sudamericani che fecero da apripista, da Lucho Herrera in poi, nei loro Paesi hanno aperto scuole di ciclismo: è stato un passaggio fondamentale. Le caratteristiche di colombiani ed ecuadoriani sono essenzialmente due: il vi­vere in altura e un’eccezionale voglia di emergere. Mentre in Italia i ragazzi cercano di guadagnare soldi facendo il blogger o il rapper, da quelle parti han­no il fuoco dentro per cercare la scalata al World Tour».
C: «Da quelle parti il ciclismo si sta avvicinando ai livelli di popolarità del calcio: i ciclisti ormai sono tra gli sportivi più importanti. In Colombia, Ri­goberto Uran è come Valentino Rossi in Ita­lia: se lui dimentica una borsa in un taxi, per esempio, il tassista finisce sui giornali. Così si alimenta il circolo virtuoso. Sempre più giovani corridori ve­dono l’Europa nel proprio futuro, sempre più procuratori vanno lì a pe­scare talenti, e così via».
E la Danimarca? Pedersen è campione del mondo, dietro a Roglic e Alaphilippe nel ranking UCI c’è Fuglsang, voi stessi alla Kometa avete puntato su Larsen…
C: « Federazione e scuole ciclismo lavorano molto bene insieme con i giovani. Ci sono moltissimi talenti danesi nella categoria Under 23. Sono convinto che nel giro die2-3 anni sarà una delle nazioni di riferimento a livello mondiale».
B: «Questo sicuramente. Poi c’è un di­scorso fisiologico di cicli: anche l’Italia ha avuto una flessione e poi è tornata, la Francia ha avuto anni così così e sta tornando ora, in Spagna ci metteranno anni a rimpiazzare Val­ver­de, Purito Ro­driguez e Conta­dor…»
La vostra squadra sta contribuendo notevolmente allo sviluppo del ciclismo ma­giaro: Kometa è un’azienda italo-ungherese (e un certo ruo­lo nella partenza del Giro da Budapest l’ha avuto) e nel roster avete Marton Di­na ed Erik Fetter. Ine­vitabile quindi parlare di Ungheria.
B: «Un movimento piccolo ma in salute. Peak e Valter hanno già fatto vedere buone cose negli stage con team di  World Tour. Tolti loro, i due di maggiori prospettive sono i nostri, che faranno molto bene».
Il fatto che gli ungheresi tendano a iniziare con mountain bike e cross-country può essere una caratteristica vincente?
C: «Loro iniziano con mountain e cross perché nel loro Paese è più facile far così, ma non credo sia un fattore: l’80% dei ciclisti di alto livello hanno iniziato su strada».
Alberto è uno dei sette corridori con la Tripla Corona. Chi sarà il prossimo?
C: «Bernal».
B: «Concordo. Anzi, è il prossimo che potrà fare l’accoppiata Giro-Tour nello stesso anno. Tra gli emergenti, è il più forte al mondo nelle corse a tappe».
Infine, ci raccontate un aneddoto che vi unisce e sia significativo del vostro rapporto?
B: «Tappa del Mortirolo al Giro 2015. Noi siamo sempre uno accanto all’altro, sia in strada che in camera. Sulla discesa dell’Aprica, Alberto buca e io gli do la mia ruota. Nel mentre, due o tre squadre approfittano della situazione e attaccano con zero fair play. Lui perde più di un minuto e si mette a in­seguire da lì fino all’arrivo. Lui arriva stremato, io 20 minuti dopo».
C: «Fu una delle tappe fisicamente più difficili della mia vita, che sforzo andare a riprendere tutti dopo la foratura! Dopo il podio continuavo a vomitare».
B: «Una volta in camera, sapevo che Al­berto era arrabbiatissimo, ma noi eravamo abituati sempre e comunque a parlare di quanto accaduto in gara. Cer­to, non potevo dirgli le solite cose per provare a consolarlo. Per un po’ non volò una mosca, eravamo stesi sui letti, lui voltato dall’altra parte. Prima o poi uno doveva rompere il silenzio. Fu lui: “Bassotto, te lo dico: hanno svegliato la bestia. Domani li ammazziamo tutti”.
C: «Il giorno dopo in realtà fu una tap­pa tranquilla, ma l’indomani c’era una salita durissima a 40 chilometri dall’arrivo, il Monte Ologno. Ri­cordo che qualcuno cadde. Beh, diedi ol­tre un minuto a Lan­da e Aru che mi se­gui­vano in classifica. Quei giorni hanno unito ancora di più me e Ivan: condividendo il duro lavoro abbiamo capito di avere un carattere si­mile, perfezionista e ambizioso. Lui per me è davvero un fratello».

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