Trentin, argento d'oro

di Pier Augusto Stagi

La  classe operaia non è andata in paradiso, anche se Mat­teo Trentin non è finito all’inferno. «Però dopo il traguardo mi è sembrato di vivere davvero un  brutto sogno - dice -. Avevo l’occasione della vita. Era andato tutto benissimo. Eravamo stati fantastici, dall’inizio alla fine. Poi quella volata, dove la testa ti dice di dare tutto e le gam­be non ci riescono. Resto lì, alle spalle di Pedersen, che è stato innegabilmente il più forte e quindi il più bravo».
Uomo di fatica e di fiducia, mai gregario, perché Matteo ha sempre vinto anche senza essere un fuoriclasse, ma campione sì. Era l’uomo designato da Davide Cassani e lui l’ha ripagato con una prova superlativa.
«Stavo bene - ci spiega -. Tutti stavamo bene e ci siamo comportati da ve­ra squadra. È vero, sulla carta quella era una volata da vincere, ma dopo quasi sette ore di battaglia sotto la pioggia, la carta è bagnata e c’è da fare la volata sulla strada…».
È il classico esempio di corridore che si è fatto da sé. Che si è costruito an­no dopo anno, chilometro dopo chilometro, con il sudore della propria fronte e con una dose inesauribile di passione. Da uomo di fiducia, a uomo al quale affidare le speranze az­zur­re. È stato lui la punta di una squadra “operaia”. Una nazionale che non aveva uomini di grido, ma era composta da un gruppo di guastatori che ci hanno incantato, come già avvenuto agli Europei negli ultimi due anni con le vittorie appunto di Matteo Trentin e quest’anno di Elia Viviani.
Matteo è l’esempio del ciclista moderno; il simbolo della “generazione Erasmus” su due ruote capace di girare il mondo: altro che “ciao mama”.
«Oggi un corridore deve parlare almeno due lingue. Io so l’inglese come l’ita­liano, mentre il francese e lo spagnolo li parlo giusto per farmi comprendere. Nonostante sia trentino, non sono mai riuscito a parlare il tedesco. È una lingua per me ostica: proprio non mi entra».
Un trentino che oggi è di stanza a Mon­tecarlo.
«Ci vivo ormai da anni con Claudia (Mo­randini, ndr), mia moglie, ex az­zurra di sci alpino. Ci siamo conosciuti a una partita del campionato di basket dell'Aquila Trento, lei si occupava di pubbliche relazioni. Vivere con una persona che ha praticato sport ad alto livello aiuta».
La maglia stellata di campione europeo l’ha vestita per un anno fino a luglio,  quella iridata che le è sfuggita davvero per poco.
«Ci ho provato. È chiaro che questa è stata la mia grande occasione, e non so se me ne ricapiterà un’altra. Io però non posso rimproverarmi di nulla: ho dato tutto me stesso. Mi è mancato poco, anche se alla fine è stato tantissimo. Sai qual è il vero problema?...».
Qual è?
«Se facciamo venti volate così, magari ne perdo una. Non di più. Il grande problema è che ho perso questa. Vo­le­vo vincere, l’ho sfiorata davvero la ma­glia, mi girano gli zebedei per non avercela fatta. Era una grandissima occasione che non so quando mi ricapiterà. L’anno prossimo mi roderà ogni volta che vedrò Mads con la maglia iridata».
Ma cosa è successo in quella volata?
«Quello che avete visto. Lui è stato più forte di me. Non ho perso di un centimetro. Di sicuro non avevo sottovalutato Mads, mi ricordavo bene il Giro delle Fiandre dello scorso anno quando lo aveva battuto solo Terpstra. Nes­su­no degli altri lo aveva ripreso. È un cagnaccio, non muore mai».
La corsa si è rivelata durissima…
«È stata una delle più dure della mia vita. Molto, molto esigente. Se ci avete fatto caso, in testa c’erano sempre gli stessi. In tanti sono rimasti tagliati fuori».
Lei doveva marcare Van der Poel ed è stato proprio lui a suonare la carica.
«Dovevo muovermi con Van der Poel e non so che cosa gli sia successo quando è “saltato”. Forse ha mangiato un gel in meno».
Dicono che la sua forza sia la serenità: anche nella sconfitta.
«Diciamo che sono più le volte che perdo: ci ho fatto l’abitudine. A parte gli scherzi, la vita va avanti e spero di avere altre occasioni».
Ci risulta che lei sia così anche nella vita: semplice e lieve.
«Cosa volete che vi dica, sono uno che ama da sempre i cartoni animati e ora che ho due bimbi piccoli ho un mo­tivo in più per guardarli. Mia mo­glie in pratica ha tre figli. Io sono quello che per lavoro gioca tutti i giorni con la sua bicicletta, e nel tem­po libero gioca con i suoi bimbi vestito da Batman».
L’amicizia nel ciclismo esiste?
«L’amicizia esiste eccome, anche perché il ciclismo è l’unico sport che ti dà la possibilità di allenarti insieme a un avversario per tutta la settimana. Poi la domenica ti “cartelli” (mettersi il numero, ndr)».
Ormai i ciclisti italiani sono tutti “cervelli in fuga”.
«Fa parte del gioco. Le squadre italiane non ci sono più e se vuoi correre ai massimi livelli devi imparare bene l’inglese e viaggiare. Oggi il ciclismo è davvero internazionale, ci si confronta con Paesi di tutto il mondo: non è più come vent’anni fa dove la facevano da padrone quattro nazioni».
E quando è a casa, aiuta?
«Mi divido un po’ i compiti domestici con Claudia. Lei soprattutto mi lascia trascorrere molto tempo con Giovanni e Jacopo, i nostri bambini, visto che sono spesso lontano da casa».
Cosa avrebbe fatto in caso di vittoria?
«Sarei andato in giro per casa con la maglia di campione del mondo, per far felici i miei bimbi».
E dopo la sconfitta?
«Mi sono vestito da Batman: li ho fatti felici lo stesso».

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