Rapporti&Relazioni

QUESTIONI DI RIME BECERE

di Gian Paolo Ormezzano

Partiamo da abbastanza lontano, in senso temporale, per avanzare alla fine una proposta che sentiamo molto vicina. Dunque in questo 2019 un ecuadoregno (ecuadoriano sa di Africa più che di Su­da­me­rica) vince il Giro d’Italia, un colombiano vince il Tour de France, i due sono abbastanza snobbati dalla stessa stampa sportiva nostrana, e per fortuna che Bernal, la ma­glia gialla, ha passato due anni da corridorino scolaretto del ciclismo agonistico in Italia, e a Parigi ringrazia nel­la nostra lingua. La lingua di un’Italia dove si continua a dire, generalizzando, che il ciclismo è in crisi: si guarda  il ditino nostro invece che la luna, vista la enorme diffusione della bicicletta ormai in tutto il mondo, l’abbondanza di talenti che nascono dovunque, insomma la fine del villaggio italo-franco-bel­ga (e un po’ anche svizzero e spagnolo) che per un secolo e passa abbiamo scambiato per il continente unico di questo grande sport.

A proposito di Storia: i cent’anni dalla nascita di Fausto Coppi han­no visto in tanti posti canonici  pregevoli interventi di gente del bel mondo della cultura. Vero che quasi nessuno degli intervenuti vide mai Coppi, ma quasi tutti han­no saputo tutto e lo han­no anche metabolizzato be­ne, e dunque, siano i benvenuti nella terre anagraficamente ormai impervie del­l’«io c’ero». Però sempre ha aleggiato sopra ogni intervento un Coppi esemplare troppo unico, troppo esclusivo di un certo periodo, troppo “aiutato” dall’Italia e dal­l’Europa delle “fresche” ma­cerie belliche a predicare fe­de nell’uomo che risorge. In­somma, un Coppi storicamente sempre più grande che pe­rò non aiuta il ciclismo nostrano di adesso, ca­so­mai lo umilia: un ciclismo per il quale comunque non si può auspicare una guerra, altre macerie, altre fortissime simbologie di rinascita, e un Cop­pi taumaturgico…

Ma torniamo al duello Giro-Tour, già delineato per il 2020 con la scelta delle località di partenza: Budapest quella del Giro, quella del Tour Nizza con i dintorni al­pinprovenzalcostazzurrini. Ur­bano Cairo, presidente della Rcs quindi padrone del Cor­sera, della “rosea” e del Giro, vuole con la sua corsa raggiungere o comunque av­vicinare il fatturato del Tour, che si dice cinque volte su­pe­riore (adesso il Giro scopre per il pronti-via l’Est eu­ropeo, dopo avere scoperto Israele). Cairo è anche un grande editore, in controtendenza rispetto alla crisi della stampa italiana e non solo. Gli suggeriamo nel nostro piccolo - eccoci al perché di questo articolo dalla lunga premessa -, comunque da grandi tifosi del suo Torino calcistico e telespettatori at­tenti della sua La7, una pubblicazione relativa alla cartellonistica popolare del Giro, che batte per 6 a 0 quella del Tour. Da noi i tifosi tappezzano le “pareti” della corsa con tantissimi cartelli e cartelloni e striscioni, spesso elaborati ma sempre caustici, solenni il giusto se proprio è il caso, umoristici sovente, non mai brutti e cattivi. Al Tour il massimo dell’inventiva, nella terra di Diderot e Proust e Pennac, è un Alè..., con nome e cognome o spesso il solo cognome del ciclista in questione, il tutto su pochi centimetri quadrati di cartone o tela. Poi uno sciupio tenero ma povero di Vive le Tour. E quadretti umani di regola sommessi: un ballo po­polare stantio, un travestimento patetico, l’uomo vo­lante o il cavallo scalpitante, il déjà-vu...
Restiamo al Tour e ai suoi simboli esposti. Un eccitante, e talora persino pericoloso per chi pedala, drappeggiare di agitatissime bandiere di tanti paesi, compresi i Pae­si Baschi dell’ex Eta. Ab­bastanza curiosamente, e non nelle sole tap­pe di montagna, tantissimi tipi e tipe con la maglia bianca a pois rosa del primo nella classifica degli scalatori (idea italiana, del pittore Mario Schi­fa­no, se ricordiamo bene): al­tro che maglie gialle o, al Gi­ro, rosa. Un affarone in pectore se si inventa un simbolo così accattivante per il popolo delle salite del Giro. Molte più scritte stradali, sull’asfalto, al Tour che al Giro, e pe­rò banali come e se possibile più dei cartelloni.

Ecco, scrivono in tanti di Coppi ciclista del po­polo, speriamo che prenda corpo anche questo omaggio editoriale (già fatto dal calcio con la cartellonistica da stadio in libri e servizi televisivi, pazienza) al popolo sulle strade della corsa: che è nipote o figlio di quello dei tempi di Coppi, ha bisogno di orgoglio sano e di ri­costruzione morale anziché materiale, se appare decisamente meno numeroso che il popolo del Tour è perché il Giro non va nelle grandi città e poco an­che nei paesoni, posti dove lo snobbano come si snobba or­mai la poesia, intanto che trionfano le rime becere.

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