Ci vadano loro sulle ciclopedonali
di Cristiano Gatti
Maggio mi sembra proprio il mese perfetto, perché è il mese del Giro e perché è il mese in cui sbocciano dappertutto le biciclette. Un mese simbolicamente ideale per riportare al centro il discorso centrale, peraltro solitamente e furbescamente occultato, perché tremendamente complesso, ai limiti dell’insormontabile: dove e come usare la bicicletta. Squadernando completamente la questione, si arriva inevitabilmente alla sicurezza e all’unica soluzione finora concepita a livello generale: la pista ciclabile. Questo è anche il capolinea, dove si avverte forte la tentazione di scendere, e dove giganteggia la figura di un tizio che la sa molto lunga, nel ramo bici: Gianni Bugno.
È da lui che voglio ripartire, è a lui che devo tutto il mio grazie e tutta la mia riconoscenza. Il campione elicotterista è anche presidente dei ciclisti professionisti, non c’è bisogno che lo ripeta io. Ma nonostante sia un addetto ai lavori molto specializzato, concentrato sulle questioni sopraffine del ciclismo ai massimi livelli, questo signore non ha mai perso la sensibilità nei confronti del ciclismo di base, dove nasce tutto, tra famiglie e ragazzini. Diciamo pure, allargando i termini, nei confronti del ciclismo sociale. Ed è proprio arrivando lì che il nostro Gianniridato, senza ruffianerie, senza peli sulla lingua, senza guardare in faccia a nessuno, dice ciò che pensa da sempre: così come le concepiscono e le fanno adesso, le piste ciclabili non servono a nulla.
Grazie davvero, signor campione. È sempre consolante non sentirsi completamente soli, nelle cause perse. Il suo pensiero coincide esattamente, per filo e per segno, con il mio (che fra parentesi uso le piste molto più di lui, da quarant’anni pedalando in giro senza velleità agonistiche, ora classico tardone da ciclobenessere). Già il fallimento epocale sta nel nome: non caschiamo nel trappolone sofista del politicame, non sono piste ciclabili, sono propriamente piste ciclopedonali. E così definite, muoiono sul nascere. Perché scatenano subito la più odiosa contraddizione della viabilistica moderna: mettere insieme pedoni e ciclisti.
I geometri e gli assessori che sulla bici non ci sono mai saliti vanno pure capiti: per loro, quelle piste sono la discarica dove ammassare due categorie parecchio seccatrici. Solitamente le grane e le incompatibilità nascono tra automobilisti e ciclisti, sulla strada normale, in un tripudio quotidiano di corna, di insulti, di dita medie al cielo, di vaffa, spesso anche di fermate per regolamenti di conti sul posto. Ma quando capita che un comune o una valle inauguri con tanto di fanfare la pista ciclopedonale, allora la guerra si sposta proprio lì: le nuove risse sono tra ciclisti e pensionati col cane (guinzaglio rigorosamente lunghissimo, da lato a lato, per tagliare meglio la strada), mammine coi passeggini, gruppi di salutisti al passo, sfaccendati vari. Lo capisce anche uno scemo, assessori a parte: il ciclista medio, come minimo, transita a 15-20 all’ora (non parliamo neppure di un allievo in allenamento: quello è fuori taglia), la velocità è comunque troppo alta per slalomeggiare tra tutte quelle vite a zonzo, con ben altre andature e ben altre aspettative. Così, ecco una domestica rappresentazione dell’inferno: i pedoni che rivendicano la pista pedonale, i ciclisti che rivendicano la pista ciclabile, nessuna delle due razze che ricordi come si chiami proprio ciclopedonale per rendere difficile a entrambe l’esistenza e sciacquare la coscienza ai sindaci.
Ai comuni, in fondo, interessa solo vendere in campagna elettorale il proprio impegno per ecologia e ambiente, firmando nel contempo ottimi appalti con generose aziende del settore. A quel punto, finito il lavoro. Che cosa poi succeda su quelle piste, se siano davvero una soluzione o un problema in più, non interessa a nessuno. Se la vedano ciclisti e pedoni, tra loro, a mani nude. Alla fine, statisticamente, mi pare di poter dire che comunque siano proprio i ciclisti a ritirarsi: dopo tre liti in due chilometri, dopo aver messo il piede a terra ogni cento metri, l’idea inevitabile è tornare sullo stradone, in mezzo ai Tir e ai furgoni: morire per morire, meglio morire in pace e felici con se stessi.
Questa è la vera storia delle piste ciclopedonali. Niente di inventato e niente di esagerato. Grazie al Cielo, è rimasto Gianni Bugno a raccontarla, in tutte le sedi. Non sono sicuro che continueranno a invitarlo per l’inaugurazione delle nuove piste: se ha un pregio è di non essere un lecchino, mai e poi mai andrebbe sul posto a dire quanto sono buone e utili le ciclopedonali, più facile faccia calare il gelo sul rinfresco e sul taglio del nastro dicendo che sono soldi usati malissimo. Una voce nel deserto, ma una voce autentica, sincera, rispettabile. Scomoda, dicono i perbenisti. Ma è scomoda per il loro conformismo ipocrita, non per la verità. Spero non gli passi mai per la mente di cambiare, per nessun motivo. Il Bugno ci serve così, solo così.