di Pier Augusto Stagi
Pistaaaaaa, arriva la Gran Bretagnaaaa! Il dominio dei sudditi di Elisabetta II nel ciclismo è cominciato così: dalla pista. Una ventina di anni fa. Uno sguardo al mondo dello sport, una valutazione di quante medaglie sono in palio in ciascuna disciplina, una considerazione sull’appeal e la popolarità dello sport, e una volta deciso, sono partiti: a tutta.
Il ciclismo è stato il loro cavallo di Troia: la disciplina regina scelta dal Paese della Regina per conquistare il mondo. Un lento crescere e pedalare: prima in pista, dove sono immediatamente diventati punto di riferimento, poi su strada. In entrambi i casi lui: Sir Dave Brailsford. L’uomo del miracolo britannico. L’uomo della visione. L’uomo della programmazione. L’uomo che ha messo in bicicletta una nazione, perché la scelta del ciclismo è stata anche una scelta di vita prossima e ventura, una visione che è poi stata cavalcata dal sindaco di Londra e non solo da lui, che con il ciclismo ha cambiato il modo di vivere dei lodinesi e di un’intera nazione.
Si sono messi a pedalare, e tanto, oltremanica. Hanno investito in quello che oggi è considerato il new golf e una nuova filosofia di vita, che ha messo in moto un’economia, che non per niente è chiamata bike economy: in Italia il volume di affari è pari a 6,2 milioni di euro, in Europa più di 500 milioni.
Ma torniamo all’agonismo e ai risultati ottenuti recentemente dal ciclismo britannico. Non solo Chris Froome, ma Geraint Thomas e adesso anche Simon Yates. Nessuna nazione, nemmeno ai tempi di Coppi e Bartali, è riuscita nella stessa stagione a vincere tutti e tre i Grandi Giri. Froome ha fatto suo il Giro d’Italia; Thomas il Tour de France; Simon Yates ha appena regalato alla Gran Bretagna la Vuelta. Se aggiungiamo il Tour e la Vuelta 2017 di Froome, le vittorie dei sudditi della Regina salgono addirittura a cinque consecutive. E i numeri diventano ancora più sorprendenti se si prendono in considerazione gli ultimi 21 Grandi Giri: loro, i ragazzi che battono Union Jack ne hanno vinti ben 9.
Chris Froome il keniano bianco con passaporto britannico, che ha fatto suoi quattro Tour, una Vuelta e un Giro; Geraint Thomas il fuoriclasse della pista che come Bradley Wiggins si è trasformato in stradista ed è arrivato a conquistare il Tour; Simon Yates, il 26enne di Manchester, che si rivelato al Giro di quest’anno (13 giorni in maglia rosa, ndr), e si è consacrato alla Vuelta, proponendosi come l’erede al trono britannico. Giovane, sveglio e audace al punto giusto, con i suoi predecessori ha solo una cosa in comune: i suoi inizi, come gli altri, li fa in pista, dove è stato campione del mondo junior dell’americana nel 2010 (a Montichiari con Daniel McLay, ndr) e iridato della corsa a punti nel 2013.
Niente sesso, solo bici: siamo inglesi. Anche se in questo caso bisogna parlare di Gran Bretagna, perché Thomas è gallese, ma fanno tutti parte della stessa famiglia: quella del Regno Unito. E l’unità fa la forza. E che forza. Tutti figli di un progetto, di un pensiero unico, di un piano di sviluppo sportivo e di mobilità atto a migliorare la qualità della nostra vita. Un piano d’investimento statale legato alla British Cycling.
«Il ciclismo britannico ha fatto molta strada negli ultimi dieci anni - ha spiegato qualche giorno fa il giovane corridore di Manchester -. Spero di continuare questa tendenza».
E poi una promessa, un arrivederci, che non ci può lasciar indifferenti: «L’anno prossimo il mio obiettivo è tornare al Giro con il quale ho un conto in sospeso - dice Yates -. Quest’anno ho corso le prime due settimane alla grande. Forse ho esagerato, ho preteso troppo da me. Non mi sono gestito bene, e non ho capito fino in fondo le parole di Vittorio Algeri, mio direttore sportivo alla Mitchelton Scott, il quale mi ripeteva: “guarda che la benzina è quella, e va gestita”. Alla fine l’ho capito sulla mia pelle, ma alla Vuelta ho messo in pratica ciò che avevo imparato».
E dire che la prima scintilla che ha dato combustione al progetto britannico è stata italiana. Sono trascorsi ventidue anni da quella medaglia di bronzo conquistata da Maximilian Sciandri, italiano che scelse la nazionalità inglese della mamma per partecipare alle Olimpiadi di Atlanta. Il progetto della Gran Bretagna è nato in provincia di Pistoia, a Quarrata, dove l’Academy ha poggiato le proprie basi. Da lì sono passati in pratica tutti: Thomas, Froome, Cavendish, Kennaugh, anche Wiggins. Soldi governativi (nel 2012 il ciclismo fu sovvenzionato con 30 milioni di sterline, provenienti in buona parte dalla lotteria di Satto, ndr) e di Sky, che sposò immediatamente il progetto, molto prima di creare un proprio team, che è da anni il più forte del pianeta.
Conosciuta come armata di mare, oggi la Gran Bretagna è chiaramente una delle superpotenze su due ruote. Nella sua storia, ha vinto solo due volte il campionato mondiale: nel 1965 con Tommy Simpson e nel 2011 con Mark Cavendish, ma c’è da giurarci, con la loro visione d’insieme e l’esaltazione dei marginal gains (guadagni marginali, leggi dettagli, ndr), anche la maglia iridata potrà diventare affare di Stato. Come in pista, dove ormai è solo quasi affare loro.