25 anni fa, un gesto mondiale
di Gian Paolo Porreca
Lance Armstrong il compleanno l’avrebbe compiuto di settembre, lui nato nel ’71, il 18 del mese. Ma la sua festa più grande, quella inattesa, e quella che ancora nessuno sarebbe riuscito a rimuovergli nei tempi a venire, l’aveva vissuta giusto tre settimane prima, quell’anno, parliamo del ’93.
Ultimi giorni di agosto, domenica 29, ma era già un autunno piovoso in cielo e in terra, su quel circuito di Oslo che avrebbe sancito un trionfo clamoroso e perentorio.
Quel successo lì, e quel giorno, pioveva anche attraverso i televisori, pioveva su Ludwig e Maassen, sul padrone di casa Lauritzen, su Indurain e Fondriest, su Tchmil e Riis, uomini da intemperie anche nel nome, Lance Armstrong il ragazzo sfrontato di Austin, la maglia a strisce e stelle, sarebbe entrato di prepotenza nel mondo del ciclismo.
Come un cowboy, Kit Carson, che spalanca le porte a battenti di un saloon. Armstrong in solitario, un contropiede in discesa dopo aver superato l’ultimo colle del circuito, una salita di nome Ekeberg, e via via dal gruppo dei migliori sull’asfalto sdrucciolevole, con Ludwig e Indurain perplessi se inseguire davvero quel temerario o lasciarlo consumarsi di suo. Ma quel pomeriggio neanche le cascate di acqua sulla corsa ci riuscirono, a spegnere quel fuoco giovane di Lance Armstrong.
Che diventò, a mani alzate, un entusiasmo sfrenato, come un artista del rock a scatenarsi sul palcoscenico, rallentando già a 500 metri dal traguardo, il più giovane campione del mondo che la storia del ciclismo abbia conosciuto. Neanche 22 anni, più giovane anche del povero Jean Paul Monserè, iridato del ’70, per una questione di settimane o giorni…
25 anni fa, nasceva di fatto, già campione del mondo, Lance Armstrong. E noi, ad un quarto di secolo, senza la pur minima riserva su quello che sarebbe poi stato di lui - vincitore di corse, sopravvissuto al cancro, dominatore del Tour e traditore maximus delle regole dello sport, tanto da meritare l’ostracismo a vita, in una sentenza da maramaldi perfetti -, vogliamo ricordarne una indimenticata lezione.
Ne illuminiamo celeste, anche se su Oslo nella memoria sembra tempesta ancora, l’affetto per la madre Linda, e il suo primo pensiero dopo il traguardo. «Dovevo correre da mia madre, lei che è stata sette ore sotto la pioggia proprio come me, e abbracciarla forte, e gridarle “ce l’abbiamo fatta, ce l’abbiamo fattaaaa…”». E ancora - nessuno perdonerà per questo amore filiale Lance, lo sappiamo, ma se ne abbia almeno presa di atto - quel suo gesto successivo, dopo la premiazione e gli applausi di rito e le foto sul podio, fra Indurain e Ludwig.
Quando viene chiamato per andare a corte, dal re Harald di Norvegia, che gli voleva fare i complimenti, lui si presenta con la mamma, e una guardia della security che dice: “guardi che solo lei è ammesso all’udienza, la signora deve aspettare fuori”.
E Lance che si ferma allora cocciuto lì, e dice che senza la madre lui non sarebbe andato da nessuna parte, se non via di lì. Tanto da ottenere alfine il beneplacito regale, e un colloquio che fu doppiamente cordiale con il sovrano.
25 anni dopo, e a qualche anno dalla abrogazione per doping dell’Armstrong dominatore dei Tour ed altro, ci sembra equo onorare in quell’Armstrong giovanissimo iridato del ’93, ancora di più il campione del mondo dei figli.