Miseria, ne ha di scalogna questo nostro ciclismo. Parlo delle incredibili coincidenze che continuano ad abbattersi sulla sua travagliata storia contemporanea. Anche questo finale d’annata è segnato dalla sua bella coincidenza: non appena si comincia ad accettare - con molta, con immane fatica - la realtà del doping nel calcio, ecco esplodere subito un caso che riporta immediatamente l’attenzione al solito posto, ma certo, ancora e sempre sui ciclisti. Grazie all’indefessa opera di Striscia la notizia e del suo fornitore di gole profonde Renzo Bardelli, un dirigente che dice di amare profondamente il suo sport (nemmeno riesco a immaginare cosa farebbe se lo odiasse), il Paese viene brutalmente richiamato all’ordine: attenzione, clamorosa rivelazione e storico scoop, nel ciclismo c’è il doping. Nessuno si distragga, ma quale calcio e quale piaga universale: qui c’è un circolo di malavitosi che mette paura. Sotto con le inchieste, che il gioco è divertente.
Come rispondere? Col vittimismo, antica abitudine dell’ambiente, no di certo. Inutile piagnucolare come calimeri perchè tutti ce l’hanno sempre con noi, così piccoli e neri. No, l’unica controffensiva è fare le persone serie: ci vuole tempo, ci vuole perseveranza, ci vuole pazienza, ma non bisogna barcollare. La Federazione continui a braccare i dopati col pugno di ferro, soprattutto là dove ingrassano gli impuniti delle gran fondo e del movimento giovanile. I medici sportivi continuino a prendere le distanze dalle pratiche sporche e truffaldine dei loro assistiti. I corridori, quei pochi o tanti di specchiata onorabilità, continuino a essere testimonial per il pubblico e modelli per i loro compagni più giovani. Tutti quanti però sapendo che il doping non sparirà domani e tanto meno dopodomani, perché una cultura secolare ha bisogno di tempi secolari per tramontare e lasciare il posto a una nuova mentalità.
Ma mentre il ciclismo continua la sua faticosa opera di ristrutturazione, comunque avviata per primo e con la maggior decisione, non si può accettare che ad ogni giro di lancetta qualche sfaccendato o qualche avvoltoio chieda attenzione e riflettori per annunciare la presenza del doping del ciclismo. Brava gente, sappiamo già tutto: il doping è diffuso, è pericoloso, è maledetto. Però, se avete i vostri problemi con i dati dell’audience e con la concorrenza dei Bonolis, non è che potete pretendere di ricominciare ogni volta da capo. Le “clamorose rivelazioni”, il “velo squarciato”, le “sconvolgenti confessioni” non nascono oggi. Hanno già due dita di polvere sopra. Noi veniamo da molto più lontano. Dei meccanismi del doping, delle sue perverse logiche e delle sue diaboliche dinamiche, abbiamo già appreso tutto nei master specifici chiamati “Festina”, “Willy Voit”, “Filippo Simeoni”. Non c’è assolutamente bisogno, davvero no grazie, delle vostre tarantolate trasmissioni in prima serata, con queste noiosissime e generiche testimonianze dei vostri supertestimoni, incappucciati e criptati come mignotte che parlino di prostituzione. Se sul serio vi interessa un terreno fertilissimo e ancora vergine, dove nessuno ha mai osato mettere mano e piede, si stanno aprendo sconfinate praterie in altri settori persino più stimolanti, primo fra tutti quello del calcio. O lì non ci si può avventurare perché i padroni del terreno mettono più paura?
In attesa degli sviluppi, colgo l’occasione per augurare a tutti un felice 2004. Alzando idealmente il calice coi nostri amabili lettori, chiudo buttando oltre Capodanno tre domande rimaste irrisolte. Domanda A: perché il professor Conconi era un losco personaggio durante i sei anni dell’inchiesta e tale rimane anche dopo l’assoluzione? Domanda B: perché quando Zeman parla di doping nel calcio è un pazzoide da emarginare, mentre quando ne parla Capello è l’autorevole Capello che va ascoltato? Domanda C: perché quando il doping saltava fuori solo nel ciclismo tutti invocavano “mano pesante e leggi penali”, mentre adesso che tocca anche il pallone c’è chi propone di liberalizzarlo, “così almeno partono tutti alla pari”, e pure chi risponde “se ne può parlare”? Col fondato timore di trascinarmi dietro queste domande anche nei prossimi Capodanni, fraterni auguri a chi ci vuole bene.
Cristiano Gatti, bergamasco, inviato de “Il Giornale”
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