Diciamolo a bocce ferme: cosa manca, al ciclismo che comunque e nonostante tutto continua a mietere interessi incoraggianti, per fare un decisivo salto in avanti? Anche in questo gelido inverno, certamente lunghe sequele di dibattiti e di premiazioni porteranno le solite risposte di stampo “poverinista”: tutti ce l’hanno col ciclismo perché non porta soldi, da noi il calcio fa il bello e il cattivo tempo, guarda anche gli sport dei motori come vengono rispettati soltanto perchè hanno dietro il business. Queste considerazioni hanno tutte un fondo di verità, non si discute: ma a forza di dircele e di sentircele dire, hanno fatto due dita di muffa. Io, almeno, appena fanno partire questo disco, avverto come un’irresistibile tentazione a dare testate contro un muro. Via, non se ne può più con questo mondo intero, questo universo crudele, questo complotto cosmico che ce l’ha sempre e soltanto col ciclismo. Se non è troppo irriguardoso, vorrei porre una domanda: e provare a guardarci dentro?
Come gesto di buona volontà, voglio offrirmi volontario. Ecco, chiudiamo fuori i complotti e i nemici che stanno sempre a congiurare contro di noi, per pensare a qualcosa, anche una cosa soltanto, che costruttivamente andrebbe fatta per migliorare il sistema-ciclismo. Come un gioco di società: se avessi la bacchetta magica, quale sarebbe il primo colpo? Personalmente, se proprio avessi un solo colpo in canna, non avrei molti dubbi: il mio abracadabra sarebbe sicuramente rivolto a ripristinare un’antica prerogativa di questa disciplina romantica e romanzesca, vale a dire il confronto tra i campioni.
Immagino che qualcuno già mi stia per dare del banalotto, perché sarebbe come dire che nel calcio serve la palla. Bella forza. Eppure, qui davvero caschiamo miseramente noi del ciclismo: in questi anni di cosiddetta esasperazione modernista, la nostra macchina da spettacolo ha spazzato via proprio il suo ingrediente principale, il duello diretto e continuo. Spero non serva il riepilogo dell’intera stagione per fare mente locale soltanto sull’ultima annata. Bettini domina le classiche, però non corre il Giro e fa il Tour solo in appoggio a Virenque (?!). Simoni domina il Giro, ma al Giro non ci sono nè Ullrich, nè Armstrong e tanto meno un semplice Beloki. Al Tour ci sono tutti, questo è vero: ma soltanto lì, con dei valori (in senso buono) completamente falsati, perché alcuni ci arrivano spompati dal Giro, mentre altri ci arrivano per fare - una tantum - esclusivamente quello. Il Mondiale? Lasciamo stare: ormai è un appuntamento per riservisti, siamo al punto che neppure portando la corsa a casa sua abbiamo il piacere di un Armstrong al via.
Chiedo: come può uno sport trascinare le folle se queste stesse folle non hanno motivi e occasioni di fedeltà? Signori, anche l’ultimo dei babbei ad un certo punto finisce per prendere posizione con Valentino Rossi o con Biaggi: a forza di ritrovarseli tra i piedi, in continua lotta agonistica e in continuo litigio personale, il pubblico si lascia coinvolgere e si appassiona. Ci sono parrucchiere di Reggio Emilia che simpatizzano persino per Gibernau, questo per dire come l’affezione si costruisca nel tempo e con la continuità. Così in Formula uno, dove Schumacher e Montoya, o Barrichello e Alonso, ci girano per casa tutto l’anno, finendo col diventare intimi e familiari. I protagonisti sono sempre loro, ovunque e immancabilmente, qualunque tifoso accende la tv e sa di trovarli. Non parliamo del calcio: le sfide tra Juve, Inter, Milan, Roma e via scendendo non hanno soluzione di continuità, si trascinano negli anni, addirittura ultimamente stanno riuscendo a propinarcele 24 ore su 24, a cena e colazione, col serio rischio di giustiziarci per overdose.
In questa cornice generale, che fa il ciclismo? E come no, va controcorrente. Studia il sistema per evitare scientificamente qualsiasi possibilità di confronto diretto tra i big. Merckx-Gimondi appassionava? Chi la pensa così si consideri puerile e antiquato. Adesso ci hanno fatto l’altarino della “specializzazione”, un eufemismo nemmeno tanto elegante per dirci che ormai i campioni lavorano part-time, e soprattutto non hanno alcuna intenzione di ritrovarsi in continuazione sulle stesse strade del mondo. Mordi e fuggi, toccata e fuga. Se uno vince la Liegi-Bastogne-Liegi, scordiamoci di ritrovarcelo in maglia rosa o in maglia gialla. Proviamo ad affrontare questo semplice quiz: prima e dopo il Tour, quanti giorni all’anno si incrociano i destini di Ullrich e Armstrong? Giro il dubbio allo specialista Angelo Costa, indiscusso titolare della materia. Eventualmente, mi limito a proporne un altro: perché la gente si è subito attaccata visceralmente a Petacchi: a) perchè è ricco, b) perché ha una sorella gnoccolona, c) perché oltre a vincere nei tre grandi giri, comincia a febbraio e smette a ottobre.
Non mi sembra il caso di insistere. Il problema è serissimo, perché inevitabilmente il ciclismo rischia di diventare materia per una ristretta cerchia di fanatici amatori. Esattamente quello che mette in fuga i grandi sponsor. Cioè quello che mette una pietra tombale sull’intero ambaradan. Al momento non resta che una speranza: la sbandierata e sempre troppo lontana riforma dei regolamenti, che imporrà un certo tot di grandi impegni alle squadre più importanti, in modo da costringerle a ritrovarsi tutto l’anno. È un primo passo. Sinceramente, sogno una regola semplicissima: tutti i ciclisti, almeno i primi cento della classifica Uci, devono correre l’intera Coppa del mondo, due grandi giri e il Mondiale. Poche storie e pedalare, questo il mio sogno. Adesso che l’ho espresso, vado mestamente incontro al mio destino: una fila di espertoni pronti a spiegarmi come il mio sogno sia in realtà una pacchiana stupidaggine. Sono gli stessi che con metodica opera da sfasciacarrozze ci hanno portati sin qui.
Cristiano Gatti, bergamasco, inviato de “Il Giornale”
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