PROFESSIONISTI | 24/02/2017 | 07:12 Marco Canola è tornato a casa e ha voglia di prendersi quella visibilità che correndo lontano dall’Italia, nonostante i numerosi piazzamenti messi in fila, non si è riuscito a conquistare. Il ventisettenne vicentino, alla quinta stagione da professionista, dopo l’esperienza americana in Unitedhealthcare ha voglia di mettersi in gioco e prendersi responsabilità importanti. 1 metro e 80 per 67 kg, Marco ha il torace a punta, “carenato”, come suo cugino Gelindo Bordin, campione olimpico della maratona a Seul ’88, e un certo Fausto Coppi. Era salito alla ribalta da neoprofessionista per aver vinto alla sua prima corsa nella massima categoria una tappa al Giro di Malesia. In maglia Nippo Fantini De Rosa è pronto ad aiutare i compagni all’occorrenza, ma anche a prendersi responsabilità e successi nelle gare più adatte alle sue caratteristiche. Con due vittorie nel suo palmares, tra cui una tappa al Giro d’Italia 2014, nel momento decisivo della sua carriera è atteso ad una grande stagione.
Cosa ti sei portato in valigia dagli USA? «Un’esperienza positiva. Alla UHC mi sono trovato bene e ci siamo lasciati con grande stima reciproca. Nell’ultimo anno ho corso poco perché la squadra ha perso lo sponsor strada facendo e si è vista ridurre il budget per le corse, ma a parte questo è andato tutto bene. In America ho visto un ciclismo diverso rispetto al nostro, più tradizionale e didattico. Rispetto agli europei, gli americani hanno meno regole, in corsa e fuori. Per affrontare molte situazioni lontano da casa devi essere aperto di mente, non è tutto automatico, da noi il massaggiatore sa quello che deve fare, il meccanico fa il suo e così tutti i componenti della squadra, mentre in altri paesi c’è una cultura diversa e spesso ti devi un po’ arrangiare. Devi organizzarti per arrivare preparato alle corse: banalmente, per fare un esempio, ho imparato qualche pratica self made per farmi i massaggi da solo prima della corsa. Visto che il tempo era sempre ristretto, dopo il breve massaggio del massaggiatore del team, mi aiutavo continuando da solo per rilassarmi muscolarmente. Essendo anche l’unico italiano rimasto alla UHC l’anno scorso mi sono un po’ “svegliato”, oggi sono più autonomo di un tempo. Mi faccio meno “paranoie” mentali e mi adeguo a qualsiasi situazione».
Ne è passato di tempo dalla tua prima gara tra i pro... «Sono passati cinque anni, ma pare un attimo. Quel successo inaspettato l’avevo dedicato a papà Walter, scomparso nel 2009, che era ed è il mio trascinatore. È sempre con me ogni giorno, non solo perché ho sulla pelle un tatuaggio che lo ricorda (una bici disegnata dallo stesso Marco, con nella ruota davanti l’iniziale del padre, in quella dietro la sua: “perché lui mi guida, io ci metto la forza”, ndr). La passione per il ciclismo mi è stata trasmessa proprio da papà, cicloamatore, e da nonno Gabriele. Prima di innamorarmi della bici mi sono dilettato in numerosissimi sport: karate, nuoto, basket, calcio e sci. Prima gara da G6, a stagione quasi finita. Vuoi sapere come è andata? Uno mi è venuto addosso in partenza, quando eravamo ancora fermi. Invece di iniziare a correre mi sono preoccupato e gli ho chiesto: “come stai?”, mentre papà dietro alle transenne mi urlava di andare (sorride, ndr). La mia prima bici era una Bianchi azzurra col cambio e i manettini sul telaio. Quando ho smesso di usarla papà l’ha venduta ma i suoi amici l’hanno recuperata, non so come, e me l’hanno regalata durante la festa per il mio passaggio al professionismo. La custodisco con affetto».
Contento di essere tornato in Italia? «Non sapete quanto! Mi mancavano le corse nel nostro Paese e l’avere a che fare con compagni e staff con cui capirsi. La prima cosa che ho fatto, dopo aver firmato il contratto con la Nippo Vini Fantini De Rosa, è stata prendere un cane, un bovaro del bernese, di nome Asso, come il film di Adriano Celentano (sorride, ndr), perché starò più a casa, a Marola di Torri di Quartesolo. Appena torno alla base la mia fidanzata Lara mi raggiunge, così trascorriamo del tempo insieme. Stiamo assieme da nove anni e siamo felici come il primo giorno. Ora è arrivato il momento di ripartire per le gare. Dopo il ritiro a La Spezia con la squadra, sono volato in Spagna per cercare un po’ di caldo, prima di debuttare con la nuova divisa al Gran Premio Costa degli Estruschi. Ho ancora lo stress dei viaggi dell’anno scorso da smaltire, perciò sono proprio felice di iniziare a correre in Italia».
Alla Nippo vi hanno messo subito al lavoro... «Davvero. Abbiamo fatto esperienza nelle aziende di alcuni nostri sponsor. Io sono stato alla Valagro, che da 30 anni offre un’ampia gamma di soluzioni per un’agricoltura sostenibile e altre applicazioni industriali biologiche. Sono stato a contatto con lo staff comunicazione e marketing dell’azienda, ho partecipato ad alcuni meeting e anche alla programmazione e organizzazione di un paio di eventi. Provare per qualche giorno un lavoro “normale” è stato un bell’impatto. Noi corridori siamo abituati a una vita molto più dinamica, non è da noi stare al chiuso e lavorare solo con la testa lasciando a riposo il fisico. Certe somiglianze però le ho riscontrate, anche in Valagro si lavora in gruppo, con gli stessi principi che regolano il funzionamento di una squadra».
Cosa prevede il tuo calendario? «Ho disputato il Tour of Oman, ora l’Abu Dhabi Tour e a seguire alcune corse tra Belgio e Francia. Sono felicissimo che la squadra abbia ricevuto l’invito alla Milano-Sanremo, una corsa da sogno e in cui sono convinto di poter ben figurare. Peccato non poter correre il Giro, la corsa rosa rappresentava l’apice della stagione per me e per tutto il team, ma dobbiamo trovare la forza di andare avanti, di trovare altre motivazioni, altri traguardi. Dobbiamo fare tutto il necessario per dimostrare agli organizzatori che hanno fatto molto male a lasciarci a casa».
Che impressione ti ha fatto la squadra nuova? «Ottima. Ha sponsor onesti e appassionati, dirigenti e personale in gamba, corridori volenterosi. Ho parlato con tutti, mi sono sentito a mio agio fin da subito e con il team manager Francesco Pelosi mi sono trovato d’accordo su idee e programmi. Ho già instaurato un buon feeling con i direttori sportivi Manzoni, Giuliani e Tebaldi così come con i colleghi. Ciò che mi ha colpito è che siamo tutti motivati a cercare il risultato, abbiamo voglia di lavorare insieme per toglierci delle belle soddisfazioni, quelle che pensiamo di meritarci. Damiano (capitan Cunego, ndr) viene da un stagione nella quale si aspettava di più, in alcune gare gli è mancato l’appoggio di un uomo in più, anche per colpa dei diversi infortunati che la squadra ha subito nel 2016; Arredondo cerca il riscatto, così come vogliono spazio uomini d’esperienza come Marangoni e Santaromita. E poi ci sono i corridori giapponesi che sono fondamentali per il progetto, alcuni devono crescere mentre altri hanno già avuto esperienze in Europa e potranno anche nutrire ambizioni individuali».
Aspettative personali? «Mi manca la vittoria, mi sarebbe piaciuto inseguirla nuovamente al Giro d’Italia, anzi avevo fatto anche un pensiero alla maglia rossa. Purtroppo per chi milita come me in un team Professional è difficile stilare programmi definitivi, visto che la stagione si disegna in gran parte sugli inviti che riceveremo. Il mio pallino, come detto, è la Milano-Sanremo, che ritengo sia adatta alle mie caratteristiche. Di buoni risultati ne ho ottenuti in questi anni, nelle ultime due stagioni ho pagato il fatto che in Italia ho corso molto poco e perciò ho goduto di scarsa visibilità, ma sono cresciuto e so quanto valgo. Sono migliorato tanto nello sprint, nel prendere le posizioni, nel trovare la ruota giusta. Ho in mente un bel piazzamento, arrivare nei primi otto alla Classicissima sarebbe ottimo. Un’altra corsa che mi ha sempre affascinato è il Campionato Italiano, so che si correrà in Piemonte e se il percorso mi sorriderà saprò farmi trovare pronto. La Nippo Fantini De Rosa mi ha offerto una bella chance per tornare nel mio Paese da protagonista, ora tocca a me non farmela sfuggire».
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