W LA FUGA. Colonna, questione di famiglia

STORIA | 18/08/2015 | 07:40
Non gli sarà sembrato vero, e per questo lo ricorderà: primo Niko, il suo primo figlio, e secondo Yuri, il suo secondo figlio, e c’è da dire che non ha altri figli, altrimenti non si sarebbe fermato lì. Non gli sarà sembrato vero, e per questo non lo dimenticherà: domenica 2 agosto, nella Coppa San Sabino, a Canosa di Puglia. Non gli sarà sembrato vero, e anche per questo non lo dirà: ma il primo Colonna corridore, in famiglia, è stato lui.

Fucecchio – e la vicina frazione di Ponte a Cappiano – è terra di giornalismo (Montanelli) e sport (da Lambruschini nell’atletica fino a Buti nella pallavolo), ma è terra soprattutto di caccia, il Padule, e di ciclismo, quello che Stefano Benvenuti chiamava il Triangolo delle Bermuda, fra Lamporecchio e Quarrata, fra Mastromarco e Serravalle, fra Vinci e Stabbia, insomma di qua e di là, anche di su e di giù dal San Baronto. Tant’è che, a 13 anni, Federico Colonna, un po’ appassionato da un quasi cugino, Andrea Donati, e un po’ ispirato da un quasi campione, Andrea Tafi, mollava il calcio e saltava sulla bici. Giovanissimo, categoria G6, la prima vittoria da esordiente, poi il campionato toscano da junior, poi una ventina di primi posti da dilettante, compresi il campionato italiano dilettanti seconda serie e una tappa al Giro delle Regioni, fino al professionismo, anno 1994, specialità velocista, e squadra, anzi, squadrone, la Mapei. “Fin troppo, forse, a ripensarci adesso”.

Perché a ripensarci adesso, racconta Federico Colonna, sono stati otto anni magici, non solo per le vittorie - mica poche: 18 - ma per le corse, la compagnia, le occasioni e le opportunità, i compagni e gli avversari, anche se poi, questo bisogna pur ammetterlo, se non ci fossero stati certi incidenti, sarebbe potuta andare ancora meglio. «Quella volta che, da militare, rimediai un trauma cranica, e quell’altra in cui, da dilettante, fui travolto da un’auto in allenamento, e quell’altra ancora che mi costrinse a tre mesi a letto, di cui due ingessato per far saldare le vertebre». Eppure: la prima vittoria in Australia e l’ultima in Malesia, le altre in Spagna e in Francia, in Polonia e due in Italia, tutt’e due al Gran premio di Rio Saliceto, un piccolo Mondiale per velocisti, e la più bella di tutte in una tappa al Giro dell’Olanda, volata di testa e nessuno capace di rimontarlo e mettergli la ruota davanti. E una sola vittoria, ma sai che soddisfazione, con una fuga: successe negli Stati Uniti, 160 chilometri al vento, nel gruppetto anche lo statunitense Hamilton, lui, quello di Armstrong, e il canadese Bauer, lui, quello di Fondriest, e Federico primo allo sprint.

«Mi rimane il rimpianto di non avere potuto giocarmela nella volata di un grande giro. C’era sempre da aiutare un capitano a fare classifica o a conquistare abbuoni».
Ma sì: gregario. «Per Giovannetti e Rominger, per Steels e Museeuw, per Ballerini e Bartoli». Ma sì, gregario. «Quel Giro delle Fiandre, nel 1997. Pavè, muri, vento. Si studiava la strada come se fosse un percorso di guerra. Fu deciso di attaccare poco prima di un rifornimento. Con le borracce tagliate: dentro, non acqua e sali, non acqua e zuccheri, ma panini e carbogel. Poi fu battaglia, da ciclismo del Nord».

Ma sì: gregario. «Però ho l’impressione che oggi i gregari abbiano più possibilità di noi una volta, più giornate di libertà e avventura». Ma sì: gregario. «Finché, quando mi sono accorto che la mia famiglia meritava certezze e non solo ipotesi o speranze, ho lasciato il ciclismo». C’erano già, con Lara (che di cognome fa Cipollini: lontana parentela con SuperMario), anche Niko e Yuri, cresciuti a pane e bici, e poi corridori, ma solo per propria volontà.

Così, dal suo negozio-officina a Lamporecchio, a papà Federico non sarà sembrata vera quella doppietta: «Il bello di Niko, 20 anni, è la sua voglia, la sua grinta, la sua tenacia. Quest’anno, prima di vincere, ha collezionato 23 piazzamenti nei primi 10. Un altro si sarebbe smontato, lui no. Il bello di Yuri, 18 anni, è il suo estro, la sua allegria, che può sembrare spavalderia. Lui è autoricaricante: se un giorno va piano, si convince che il giorno dopo andrà forte. E questo è il bello del ciclismo: un gioco, ma anche una scuola, un continuo viaggio, ma anche dentro di sé».

Marco Pastonesi
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