ACCPI. Salvato: la politica del fare

POLITICA | 04/02/2014 | 09:01
I quarantenni sbarcano sì in politica, ma si muovono anche nel ci­clismo. L’agognato cambio ge­nerazionale ai vertici del nostro Paese e del mondo dello sport non sembra più un’utopia. Per quel che riguarda le poltrone del nostro sport, la novità più interessante è rappresentata dal nuovo numero 1 dell’Assocorridori, vale a dire Cristian Salvato. Profes­sio­nista dal 1995 al 2001, in carriera è stato ottimo gregario dopo essere stato parte integrante dei quartetti az­zurri delle cronosquadre nelle categorie giovanili nelle quali ha conquistato tre titoli mondiali, uno da juniores e due da dilettante. Dopo aver appeso la bici al chiodo si è dedicato alla famiglia (è sposato con Alessan­dra e ha tre figli: Leonardo, Giada e Ric­cardo, ndr) e al lavoro come “area manager” nel Gruppo Euro­mobil, sen­za mai ab­bandonare del tut­to la passione per le due ruote. Nel sindacato dei ciclisti a partire dal 2009, il quarantaduenne padovano è stato eletto per acclamazione dai ciclisti e dalle ci­cliste della massima categoria quale presidente per il prossimo quadriennio, in oc­casione dell’ultima as­semblea dell’Associa­zio­ne Corridori Ciclisti Pro­fes­sionisti Italia­ni svoltasi il 29 novembre scorso a Salso­maggiore Terme. Co­no­scia­mo meglio lui e la rotta che intende dare alla ACCPI 2.0.

Vuole rottamare tutto come Ren­zi?
«Bella questa! (sorride, ndr). Sicura­mente il nostro movimento, come l’I­ta­lia, ha bisogno di un importante rinnovamento. È vero che ci sono uomini di 70-80 anni ancora lucidi e dallo spirito giovane, ma sarebbe bello vedere qualche volto più fresco tra chi prende le decisioni. Alle scorse elezioni federali di Levico Terme mi ha sorpreso vedere tra candidati e votanti le stesse facce di quando io ero un ragazzo alle prime pedalate, alcune delle quali non erano giovanissime nemmeno allora. Chi ha dato tanto a questo sport, secondo me dovrebbe tendere la mano alle nuove generazioni, che a loro volta però devono dimostrare di volersi dare da fare».

Come lei.
«Non sono un politico di mestiere e non ho intenzione di diventarlo, ho tan­to da imparare ma la voglia di fare proprio non mi manca. Sono entrato cinque anni fa in punta di piedi nell’Assocorridori, coinvolto dal gruppo di lavoro di Gianni Bugno e Ame­deo Colombo, ai quali il mio nome era stato fatto da alcuni miei ex compagni ancora in gruppo. Per me fu un grande piacere essere affiancato a Gianni, che era il mio idolo quando correva, figuratevi la mia emozione quando lui stesso - dovendo passare a guidare l’associazione internazionale dei corridori (CPA) - mi propose di diventare vicepresidente del­l’ACCPI... Man mano mi sono sentito sempre più coinvolto e mi sono impegnato sempre più, fino a que­ste ultime elezioni. Essere scelto in un’assemblea così partecipata e per la prima volta con la presenza del gentil sesso, per me ha un valore aggiunto: non avevo mai visto tanti corridori presenziare ai nostri incontri. Insomma, è stato l’inizio ideale. Colgo l’occasione di questa intervista per ringraziare nuovamente Amedeo per tutto quello che mi ha insegnato, ho sempre ammirato la sua infinita passione per questo sport e spero continui a starmi vicino fornendomi buoni consigli».

Cos’ha fatto sinora in seno all’Asso­cia­zione?
«Mi sono battuto per creare un gruppo più coeso, per coinvolgere maggiormente i ragazzi perché solo se il gruppo è compatto si possono davvero raggiungere dei traguardi importanti per la categoria. Per questo con gli altri rappresentanti da un lato abbiamo fatto leva sul concetto di condivisione e dall’altro stiamo puntando sulla formazione dei nostri associati. Sono stato ispirato da quel che raccontava Danilo Gal­linari, ovvero che al suo approdo nel basket NBA fu invitato a una full immersion di tre giorni nel corso della quale venne spiegato, a lui e agli altri atleti arrivati in quel campionato, tutto dal punto di vista delle regole del gioco, della comunicazione, di come ge­stire i guadagni. Per­ché non far­lo anche per i ciclisti? In fondo un ra­gaz­zo che entra nel professionismo, più o meno 22 anni, de­ve imparare tutto, dal compilare l’ADAMS per il sistema di reperibilità che prevede il passaporto biologico allo stipulare un contratto, una assicurazione, un fondo pensione. Per tutto questo di solito ci si affida al compagno di squadra o ai procuratori, ma l’ACCPI può essere molto utile in questo senso. Negli ultimi anni abbiamo organizzato un incontro a fine stagione rivolto ai neoprofessionisti, di cui andiamo orgogliosi perché gli stessi ragazzi ci hanno confermato che avvertono la necessità di un supporto in oc­casione del passaggio nella massima categoria. Quest’anno - in accordo con la Federazione, il Settore Studi e la Le­ga del Ciclismo Pro­fes­sioni­stico - ab­biamo vo­lu­to pro­vare a organizzare un incontro di formazione per tutti i corridori, è stato una sor­ta di “numero zero”, e abbiamo avu­to una grande risposta, oltre a qualche dritta utile per poter rendere l’appuntamento non un obbligo ma un piacevole ritrovo annuale durante il quale confrontarsi per il bene del ciclismo italiano».

Ci presenti il suo gruppo di lavoro.
«È una squadra giovane, il nuovo consiglio direttivo è formato da persone nate tra il 1968 e il 1984. Ci siamo radunati per la prima volta il 23 dicembre per completare il nostro organico e per fare un pun­to della situazione. Tra i consiglieri Alessandra Cap­pellotto, Ales­sandro Bertolini, Diego Caccia, Alberto Curtolo, Andrea Ferrigato e Ivan Ravaioli abbiamo scelto come vicepresidente non in attività (ruolo ricoperto da Salvato nell’ultimo mandato del presidente ACCPI uscente Colombo, ndr) Alessandra Cap­pel­lotto, a sancire ancora di più la nostra voglia di essere vicini al settore femminile che, anche se non ha ancora un ri­conoscimento professionale, ha diritto per statuto di far parte della nostra associazione e di usufruire dei nostri servizi quali assicurazioni, distribuzione premi e quant’altro. Abbiamo confermato Filippo Pozzato come vicepresidente in attività perché, piaccia o non piaccia, è uno che non ha paura a far sentire la sua voce e a metterci la faccia. A volte è un po’ estremista, ma non c’è dubbio che sia uno dei ragazzi in gruppo che più si danno da fare per i propri colleghi e alle nostre riunioni è sempre in prima fila. Co­me tut­ti gli altri uomini e le donne dell’Asso­cor­ridori, ha voglia di fare. Per lo stesso motivo e per le qualità di­mostrate negli anni scorsi abbiamo confermato nel ruolo di segretario ge­nerale l’avvocato Federico Scaglia. Nella veste di probiviri abbiamo l’onore di avere tre miti del nostro ciclismo come Alfredo Martini, Felice Gimondi e Marino Vigna. A far da revisori dei conti si sono offerti i corridori in attività Valerio Agnoli, Riccardo Chiarini e Paolo Longo Borghini. Per finire Eli­sa Longo Borghini sarà la nostra rappresentante per il settore femminile, Elia Viviani sarà il nostro uomo per la pista e Marco Aurelio Fontana il referente per il fuoristrada».

Da quando vi occupate di mtb e ciclocross?
«Lo statuto dell’associazione prevede da sempre la presenza delle donne Éli­te e degli atleti del fuoristrada, ma avendo loro un riconoscimento contrattuale molto diverso dalla maggioranza dei nostri associati, non siamo mai riusciti a coinvolgerli come avremmo voluto. Elisa, Elia e Marco sono tre ragazzi e tre campioni di spicco che so­no convinto potranno aiutarci a colmare questo gap. C’è molto da fare sia nel fuoristrada che per l’altra metà del cie­lo, ma con il fior fior di atleti che ab­biamo in casa nostra in entrambe queste discipline, dobbiamo far qualcosa per far crescere anche in termini di diritti questi due mondi. Sia le ragazze che i biker e i pistard meritano il no­stro aiuto, come successo per le ragazze convocate dalla procura della FCI in seguito allo sciopero al Giro di To­scana. Grazie al nostro intervento e alla testimonianza di addetti ai lavori e partecipanti straniere abbiamo dimostrato che l’evento non rispettava i ca­noni di sicurezza indispensabili per una corsa .HC e impedito che le atlete denunciate dall’organizzatore della cor­sa subissero delle conseguenze penali. Il nostro intento è ottenere il massimo della qualifica per tutti e tutte le atlete. Alla base dei nostri intenti c’è l’essere più vicini ai corridori, per far sentire a ognuno di loro che ci siamo. Dob­biamo passare dalla politica del dire a quella del fare».

Questa è una frase da vero politico!
«Mi fa davvero strano sentirmi definire politico o sindacalista, io sono semplicemente un ex corridore appassionato e molto pratico. Volevo dire che non sciorinerò un fumoso programma di 100 punti, ma con i miei collaboratori affronterò i problemi una pedalata alla volta. In concreto vogliamo continuare a puntare forte sulla diffusione della cultura del ciclismo e dell’etica dello sport: bisogna tornare ai valori che animano ciascun ragazzino quando sale in bici per la prima volta, alla pura passione, per voltare definitivamente pagina dopo un periodo terribile».

Si riferisce agli immancabili scandali do­ping?
«A questo riguardo, rispetto a qualche anno fa il mutamento è radicale, i corridori non sono più degli automi, si ve­do­no spesso crisi in corsa, è tutto più umano. Lo si capisce stando in mezzo a loro, parlandoci e ascoltando le loro esperienze: il doping per fortuna non è più all’ordine del giorno. Il passaporto biologico è un deterrente importante, ma è la cultura dei ragazzi a essere cam­biata. Il cretino di turno ci sarà sempre, ahinoi è fisiologico, ma io personalmente sono ottimista guardando al presente e al futuro. Il ciclismo, co­me se fosse un’azienda, non può pensare di costruire nulla di buono se parte da basi che si sono dimostrate errate, deve imparare invece dagli errori commessi ma guardare avanti. Dobbiamo essere noi che amiamo questo sport i primi a togliere la parola doping dal vocabolario per abbattere l’ormai co­mu­ne associazione ciclismo=doping. Ri­cordo che, quando correvo, lo psicologo della nazionale mi diceva che non dovevo pensare al mal di gambe perché già il solo pensiero porta a una sensazione negativa. Non dobbiamo sottovalutare questa piaga che colpisce e danneggia tutti gli sport, ma nemmeno svilire quanto può offrire il ciclismo ri­conducendolo a casi che sono evidentemente sempre più isolati e condannati dal gruppo».

Ed evitare eccessi, come quelli previsti dal Movimento per un Ciclismo Credibile (MPCC), che danneggiano atleti che hanno già scontato la loro squalifica.
«Assolutamente. Ho visto Franco Pel­lizotti all’assemblea di Salsomag­giore felice come una Pasqua per il suo in­gaggio da parte dell’Astana, ma quando si è saputo che il suo passaggio al fianco di Vincenzo Nibali era saltato gli è caduto il mondo addosso e lo stesso è accaduto anche a me. Abbiamo tante regole in materia antidoping, ma serve più chiarezza. Bastano poche nor­me, semplici e uguali per tutti. La retroattività, per dirne un’altra, è inaccettabile, come abbiamo dimostrato a suo tempo lottando contro il decreto federale che im­pediva a chi aveva ricevuto una squalifica superiore ai sei mesi di vestire la maglia azzurra e di­sputare il Campionato Italiano. Si do­vrebbe stabilire a monte che da qui in poi - ad esempio - c’è la squalifica di 4 anni o addirittura la radiazione, e tutti si conformerebbero a tali regole. Ma inserire in corsa nuove sanzioni e criteri stabiliti da movimenti non riconosciuti, non è giusto. Altro punto inac­cettabile è la lentezza della giustizia sportiva. Il caso Lampre, per esempio, va avanti da più di cinque anni e ci sono corridori che smetteranno di correre per colpa di questa vergognosa lentezza. Chi è colpevole deve pagare, chi è innocente deve essere velocemente assolto».

A Salsomaggiore molto interessante è sta­to il dibattito sulla riforma del movimento ciclistico che l’UCI aveva previsto di adot­tare dal 2015 e che verrà probabilmente posticipata al 2017 o addirittura al 2020.
«Sì, con le sue numerose criticità ovviamente ha fatto saltare sulla sedia i nostri associati. Una riforma del ciclismo internazionale ci vuole, ma affrettarsi e adottarla senza che sia condivisa da tutte le parti in gioco sarebbe solo un danno. Un vero tsunami per il movimento, per i corridori, le squadre, gli organizzatori. E per quello tricolore con sempre meno squadre e soldi sa­reb­be stato un duro colpo. Il nostro ci­clismo deve stare con le orecchie ben aperte e cercare di migliorare quello che è attualmente in discussione. Dob­bia­mo stare all’erta anche sulle decisioni che verranno adottate per il calendario agonistico, per salvaguardare la tradizione delle nostre corse. Mi viene da pensare al vino, di cui sono un grande appassionato: negli ultimi anni hanno preso piede vini provenienti da nuove terre, dall’Australia, dal Cile, dal Su­dafrica, dalla California, vini che hanno anche venduto tanto; ma alla fine, i grandi classici restano quelli italiani o francesi. Il ciclismo attuale mi ricorda questo percorso, e spero che, come per il vino, alla lunga si impongano le corse europee di maggior qualità e tradizione».

Qual è la vostra posizione ri­guardo alle squadre Con­tinen­tal, che possono partecipare al calendario professionistico pur avendo status dilettantistico?
«Insieme al CPA di Gianni Bugno ci siamo sempre battuti per stabilire una barriera netta tra ciò che è professionismo e ciò che non lo è. Il sistema di una volta era meraviglioso, di qua i di­lettanti, di là i prof; oggi invece è tutto un gran marasma e ci ritroviamo con ra­gazzi che pensano di essere professionisti ma di fatto non lo sono. La cosa più grave, a mio avviso, resta comunque la disparità di diritti e doveri tra le formazioni di prima e seconda fascia e quelle di terza: se una Continental è una squadra professionistica, è giusto che si at­tenga a determinate regole come tutte le altre. Quando lo dissi personalmente all’allora presidente dell’Uci McQuaid, lui mi rispose che non si riusciva a controllare tutti. Io ribattei che non tutti devono per forza essere professionisti: questa è una parola che deve avere un peso, non indicare di tutto e di più».

La nuova UCI sembra più disponibile al dialogo di quella gestita da McQuaid...
«È presto per giudicare, però da alcune piccole cose ci siamo fatti un’idea. Ci ha colpito il fatto che il nuovo presidente Brian Cookson abbia risposto subito alla lettera che gli abbiamo indirizzato sulla vicenda di Alessio Gal­letti. Sono piccoli segnali ma è bello leggere, da parte sua, che il movimento dei ciclisti professionisti resta al centro di questo sport. Ai nostri politici che operano a livello nazionale come internazionale vorrei chiedere più sincerità. Non ci interessa ricevere continui falsi “sì”, ci va bene anche qualche secco “no” ma quando a una proposta ci rispondono positivamente vogliamo la­vorare insieme per farla di­ventare realtà. Sfruttiamo la grande popolarità della bicicletta di questi tempi per far avvicinare nuovo pubblico all’agonismo. La bici ci aiuterà sicuramente a trovare la soluzione alla crisi!».

In chiusura, quali obiettivi si è prefissato per il suo mandato?
«Voglio che i nostri associati diventino consapevoli di essere la vera forza di tutto il movimento. Per questo dobbiamo puntare sulla cultura dello sport, del nostro in particolare. L’intervento di Massimo Cacciari sull’etica dello sport nel primo incontro formativo plenario è stato molto profondo, e anche se qualche corridore può aver sbadigliato ci stava. Dobbiamo aprire la men­te. Ai miei collaboratori ho chiesto di essere più presenti alle corse, stare vicini ai ragazzi è l’unico modo per creare unione e coesione nel gruppo. Non voglio che i nostri associati si ri­cordino di noi solo quando hanno un problema o ricevono le nostre mail per le riunioni. Un mio pallino è anche or­ganizzare dei corsi per il dopo carriera, vorrei che l’ACCPI diventasse anche un trampolino di lancio per gli ex professionisti verso il mondo del lavoro. Metodo, disciplina e passione sono le mie linee guida. Nella mia prima lettera ai ragazzi ho fatto ricorso a una citazione di Goethe in cui mi riconosco molto: “Le cose migliori si ottengono solo con il massimo della passione”».

di Giulia De Maio, da tuttoBICI di gennaio
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