EXTRATOUR. Banfi: il passaporto biologico va migliorato

| 21/07/2011 | 09:03
Il Professor Giuseppe Banfi è il direttore scientifico dell’IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano ed è uno dei massimi esperti italiani di ematologia, consulente di parte in vari procedimenti riguardanti il doping.

Professor Banfi, lei ha appena pubblicato un articolo in cui si critica fortemente il passaporto biologico.
«Sì, ho pubblicato quello che si definisce un Opinion Paper su Clinical Chemistry and Laboratory Medicine. L’invito a scrivere un intervento è giunto al sottoscritto e al dottor Zorzoli del­l’UCI dagli editors della rivista, i professori Plebani e Lippi, proprio per una valutazione approfondita da parte dei lettori di un argomento complesso, a partire da un articolo del professor San­chis Gomar di Valencia, che esprimeva dei dubbi sul metodo, riguardo alla vi­cenda che ha avuto come protagonista Franco Pellizotti. In ogni caso, con il mio intervento, non ho criticato il sistema del passaporto biologico, ma le mo­dalità di applicazione».
Quindi lei non è contrario al passaporto biologico?
«Tutt’altro. Come ho sempre sostenuto, un sistema personalizzato di monitoraggio dei parametri di ematologia è un approccio corretto e valido. Sottolineo che il sistema era nato per un monitoraggio e non come metodo per comminare sanzioni».
Cosa non la convince del passaporto biologico?
«Io mi concentro naturalmente su motivi scientifici e non voglio andare al di là di questi. Prima di tutto, non vi sono delle descrizioni particolareggiate su ri­viste scientifiche del metodo utilizzato. Molte informazioni sono state acquisite solamente quando sono state effettuate le audizioni presso i tribunali antidoping nazionali e al TAS. Molti dettagli sui tempi di trasporto, sulla stabilità dei parametri o sulla sensibilità del sistema alle variazioni dovute alle trasfusioni escono solo ora, mentre sarebbero do­vute uscire prima della sua applicazione. Per correttezza devo dire che la mia esperienza è limitata, rispetto ai nove esperti dell’UCI, poiché ho esperienza solo dei due casi che ho seguito direttamente, ma d’altra parte, non vi sono oc­casioni per ottenere maggiori informazioni».
Può entrare maggiormente nel dettaglio?
«Certamente. La sorgente del gruppo di riferimento è piuttosto oscura, poiché i promotori del passaporto si rifanno a dei dati pubblicati precedentemente, ma tali dati non si rilevano completamente in queste pubblicazioni. La “varianza”, ovvero il parametro della va­riabilità naturale dei parametri considerati, che rappresenta un punto fondamentale per l’interpretazione di un profilo ematologico, non è stata scelta in mo­do appropriato, ovvero sui ciclisti professionisti. Invece di usare la variabilità (varianza) del gruppo di atleti comprendenti anche i ciclisti professionisti, hanno utilizzato il gruppo dei calciatori. Hanno affermato che i ciclisti inseriti in quella pubblicazione, che è stata utilizzata per il protocollo australiano, erano in realtà dopati. Non è corretto paragonare i ciclisti, che presentano grandi variazioni dei parametri del sangue durante una stagione con i calciatori che praticamente non ne hanno. Ciò significa che variazioni durante la stagione possono esser viste e giudicate anomale, quando invece non lo sono af­fatto. Sottolineo che il sistema non tiene conto delle variazioni che si instaurano durante l’anno per allenamento, competizioni e detraining. Al contrario, in un caso, si è ipotizzato il doping in un atleta poiché il suo valore di emoglobina non risultava in diminuzione, ma in tal caso il sistema del passaporto nulla può dire, poiché basato sulla variazione dei dati. Le procedure preanalitiche (mo­dalità, temperatura, tempi di trasporto, identificazione dei campioni biologici) seguite in molti dei prelievi non erano corrette secondo le stesse procedure dell’UCI e della WADA. Anche le procedure analitiche, ovvero le procedure seguite dai laboratori per la misurazione dei parametri, non sono sempre state corrette. Questi aspetti so­no fondamentali: per esempio, in un ca­so, la documentazione di due prelievi effettuati in un dato laboratorio non esisteva per nulla. In un altro caso, la strumentazione utilizzata era diversa da quella consigliata: secondo il protocollo elaborato dal laboratorio di Lo­san­na, occorrerebbe modificare i dati perché i due metodi non sono perfettamente comparabili (uno misura il 50% in più dei reticolociti rispetto all’altro, per esempio), ma non vi era traccia di questo. Spero che abbiano migliorato, con il tempo, tutti questi aspetti preanalitici ed analitici. La temporizzazione dei prelievi: originariamente i promotori avevano proposto dei limiti accettabili ovvero almeno cinque giorni tra due controlli e non oltre tre mesi. In realtà, i profili sono stati costruiti con prelievi effettuati ad intervalli di tempo diversissimi, confrontando valori di giugno, in pieno agonismo, con valori di novembre, a riposo, ad esempio. Insomma, le questioni tecniche non sono state adeguatamente seguite: voglio rimarcare il fatto che le procedure UCI e WADA so­no ben fatte e sono dettagliatissime».
E la statistica?
«Se sulla serie di dati dell’atleta il sistema statistico calcola che vi sia una probabilità del 99,9% (cioè uno su mille) che tale serie non sia “regolare”, si pone il sospetto… Ovvero: il sistema calcola sui dati dell’atleta, considerando (in teoria) età, sesso, altitudine, sport di du­rata, tipo di strumento, etnia di ap­partenenza, se la serie di dati è plausibile per quell’individuo. Se ciò avviene ci sarà, ad esempio, una probabilità bassa (20%, ad esempio) che tale serie non sia plausibile, se invece la probabilità di una serie “strana” è alta (99,9%) si ha il sospetto di doping. Ciò significa che solo in un caso su 1000 quel profilo po­trebbe esser “normale”: occorre identificare qualche motivo che l’ha modificato, come una malattia, una terapia o il doping. Tre sono le condizioni cruciali per un giudizio corretto: il gruppo di riferimento, la “varianza”, le variabili in gioco. All’ini­zio della serie di un atleta si confrontano i suoi dati con un gruppo di riferimento, per cui occorre che tale gruppo (detto “gruppo modale”) sia veramente paragonabile a quello cui ap­partiene l’atleta, e ciò non è dimostrato. La “varianza” deve esser altrettanto con­gruente, e ciò non è dimostrato. Le variabili in gioco, secondo il documento ufficiale del laboratorio di Losanna, so­no età, sesso, tipo di sport (di durata oppure no), altitudine, tipo di strumento, etnia. Alcune sono fisse, ma alcune cambiano: per una corretta valutazione bayesiana, tutte le condizioni devono esser introdotte prima del calcolo statistico. Nei casi di due ciclisti italiani la variabile altitudine, così come per un ciclista sloveno, non è stata calcolata. La regola dell’UCI sostiene giustamente che l’altitudine debba esser calcolata pri­ma dell’inserimento dei valori ottenuti durante o immediatamente dopo l’esposizione all’altitudine, poiché l’in­se­rimento dell’altitudine fa variare i li­miti del profilo. In altri termini, senza inserire la variabile altitudine, l’atleta presenta un valore di emoglobina  più alto (perché aumentato in modo naturale dall’esposizione all’altura) mentre il valore del limite superiore del suo profilo rimane praticamente identico al punto precedente, quando l’atleta era a livello del mare, per cui l’atleta ha più probabilità di avere il proprio valore molto vicino o superiore al limite imposto dal sistema (cosa che è realmente avvenuta). È come passare da una strada statale con limite a 90 km/h all’autostrada con limite 130 km/h e si venisse multati perché l’autostrada viene ritenuta ancora strada statale dagli stessi che hanno identificato i limiti da rispettare. Il documento del laboratorio di Losanna si rifà ai dati dell’Or­ga­niz­za­zione Mondiale della Sanità secondo il quale quindici giorni in altitudine mo­dificano l’emoglobina, ma questa variabile non è stata calcolata in alcuni casi. O si cambia il documento di riferimento o si utilizzano le variabili, altrimenti si ingenera solo confusione. Inoltre, non si comprende perché si calcolano dei limiti nei profili. Infatti, in ogni profilo vi sono un limite superiore ed uno inferiore. L’atleta può esser accusato e squalificato, come è capitato, anche se i suoi valori rientrano nei limiti che lo stesso sistema ha definito. Non è una procedura tipica delle decisioni mediche. Infine, molte volte si è assistito al ricalcolo del profilo, quando i prelievi erano inadeguati o quando le regole im­poste dalle stesse agenzia antidoping non erano state seguite correttamente. In un sistema probabilistico non è corretto effettuare il calcolo a posteriori».
Però esiste il giudizio degli esperti….
«Giusto. La procedura disciplinare inizia solo se gli esperti all’unanimità decidono che il profilo è sospetto e non se­gue la fisiologia. Però gli esperti non va­lutano tutti i profili, ma solo alcuni, che vengono selezionati sulla base della statistica».
Ci sono degli aspetti positivi nel passaporto, secondo lei?
«Certamente. In primo luogo, onore all’UCI che è una federazione che esegue i controlli. Il merito del passaporto è quello di essere un sicuro deterrente e di rappresentare un mezzo dinamico e non statico di controllo. Effettuare i controlli significa ridurre, in ogni caso, il doping e ciò è avvenuto anche con al­tri sistemi, oltre al passaporto biologico. Anche il meccanismo di giudizio da par­te di un collegio di esperti è una in­teressante innovazione, perché aggiun­ge valore ad una valutazione che sarebbe solamente statistica. Inoltre, il coinvolgimento degli atleti e delle squadre nel sostenere le spese del sistema è un’ul­teriore interessante novità, alla quale dovrebbe seguire la fornitura di maggiori informazioni sul sistema stesso».
Ci può dare qualche considerazione finale sulla sua esperienza?
«Sì, ci tengo a precisare che porre delle critiche sul piano scientifico al sistema di controllo non significa esser dalla parte di chi pratica il doping. Un sistema certo, affidabile e scientificamente solido è la migliore arma per impedire la confusione. Se qualcuno cui affidiamo le analisi non segue le regole che loro stessi hanno dato, come esser certi del risultato, positivo o negativo che sia? Occorre anche dire che certe affermazioni da parte di scienziati che ipotizzano la liberalizzazione del doping, e che non condivido, aumentano la con­fu­sione. Spero che le mie considerazioni siano utilizzate dagli esperti del­l’UCI. Occorre un impegno comune in tal senso: alla fine del 2009  D’Onofrio ed io abbiamo iniziato a scrivere un do­cu­mento di riferimento per un’as­so­ciazione scientifica di ematologia, di cui lui è un importante membro, che però non ha avuto seguito,  anche a causa di una scarsa conoscenza del problema al di fuori della ristretta cerchia dello sport. Ecco, un po’ di co­noscenza generale farebbe molto bene al sistema».

da tuttoBICI di luglio
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