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Ogni anno in Oman il ciclismo è sempre più di casa, il paese arabico sta scoprendo poco alla volta questo magico sport grazie al prezioso lavoro di Aso che ha deciso di scommettere su una corsa a tappe che richiama ormai atleti di alto livello. È uno scambio reciproco in cui l’Oman per sei giorni si apre al mondo per accogliere una specie di sogno. Abbiamo capito subito che c’è tanta voglia di fare, sin dai grandi onori del primo giorno, l’obiettivo di crescere ancora per puntare al World Tour e una possibilità appena accennata di aprirsi al ciclismo femminile. È da questa dichiarazione che è partito il nostro viaggio nel viaggio per capire come le donne vivono questo evento.
Dobbiamo ammetterlo, non è stato facile capire le regole del gioco di un Paese così lontano dal nostro, ma che in realtà ha molto in comune con quel continente europeo che spesso prende come modello. Nella prima giornata dedicata alla stampa, quasi per caso ci siamo trovati a parlare di ciclismo con una ragazza che lavora per la televisione: è stato subito chiaro quanto tutto fosse molto complicato, bisognava porre le domande giuste, ma soprattutto non superare quel limite che noi occidentali siamo ormai abituati a non avere. In Oman le donne non praticano ciclismo, non esiste un divieto o una regola particolare, sia ben chiaro: semplicemente non lo conoscono. Lo sport più popolare è di gran lunga il calcio, seguito dal cricket, dal nuoto e dall’atletica su cui il governo sta puntando tantissimo soprattutto nelle università. Su quattro atleti omaniti alle Olimpiadi una era una donna, una velocista che aveva già partecipato a Rio 2016: il progetto è quello di aumentare il loro numero, ma non esistono cicliste. Per la verità nel 2019 un piccolo gruppo al femminile si era interessato al progetto, volevano provare ad aprire una micro squadra, ma poi la scelta giudicata migliore è stata quella di trasferirsi negli Emirati Arabi dove ci sono altre opportunità. La grande popolarità dell’Uae Tour e della squadra che oggi allinea Pogacar e Longo Borghini è una spinta importante a cui guardano con occhi sognanti.
L’Oman offre tanti percorsi interessanti per chi vuole praticare ciclismo, ma trovare qualcuno che lo pratica è altamente difficile. Come ci ha spiegato il diesse della squadra omanita, mancano i mezzi e soprattutto questo sport non fa parte della cultura, ci è bastato guardarci intorno per capirlo. Escludendo i turisti che competono ad un campionato a parte, abbiamo visto qualche lavoratore con tanto di pettorina in sella alla sua bici, altri usarla per piccoli spostamenti come andare alla moschea o qualche bambino per semplice divertimento, ma nessuna donna. Il Tour of Oman ci ha fatto attraversare diverse realtà permettendoci di capire come gli usi e la mentalità cambiano. Il primo giorno, per la Muscat Classic la partenza era ad Al Mouj, quartiere futuristico stracolmo di stranieri che dava l’impressione di non trovarsi veramente nella penisola araba. Alcune donne europee si scattavano le foto con i ciclisti, quelle del posto si avvicinavano con interesse per capire chi ci fosse, altre portavano i figli proprio nella zona della presentazione invitandoli ad applaudire i grandi campioni. All’arrivo della quarta tappa la situazione era molto simile, le lavoratrici dell’albergo poco distante erano giunte in massa spinte dalla curiosità, le donne del luogo provavano a mimetizzarsi con le turiste e alcune giornaliste della tv locale si facevano largo per intervistare il vincitore di giornata e tutti gli altri protagonisti. Nonostante sia un Paese di cultura musulmana l’Oman è abbastanza aperto alla componente femminile, le donne studiano, guidano la macchina, fanno parte del governo, sono indipendenti.
E’ attraversando i villaggi che si scopre l’Oman vero, quello radicale, quello autentico. Al passaggio della corsa la gente si riversa sulle strade, più per curiosità che per fare il tifo per qualcuno: in prossimità dei centri abitati erano in tantissimi, uomini, ragazzi, bambini, nessuna donna. Inizialmente scovarle non è stato facile, bisognava guardare bene nei cortili, tentare di spiare tra le finestre, ma loro erano lì, incuriosite, spaventate, spesso con il telefono in mano, cercando comunque di catturare qualche ricordo prima di scappare via. Lontano dai centri abitati capitava di vederle in strada, sempre in gruppo, sempre in disparte, avvolte nei loro vestiti colorati mossi dal vento. Alcune preferivano restare in macchina mentre i mariti e i figli si godevano la corsa più da vicino, altre battezzavano l’ombra dei pochi alberi presenti e si rintanavano nell’oscurità. Le bambine cercavano di mischiarsi alla folla e seguivano gli altri nel clima di festa, incredule, affascinate. Un giorno, quando ci siamo avvicinati ad un gruppo di tifosi, il padre ci ha spiegato con orgoglio di aver portato tutta la famiglia per vedere la corsa, anche le sue figlie perché è un evento che accade raramente in Oman ed era giusto farle partecipare come gli altri. Ce ne siamo accorti solo quando siamo ripartiti, la moglie non c’era.
Al nostro passaggio spesso le donne si nascondevano, ma quando incontravano i nostri sguardi si bloccavano, ci sorridevano, come se in qualche modo tra noi e loro ci fosse un legame, è stato quello che ci ha colpito in pieno, il loro modo di guardare tutto quello che stava succedendo, sognanti, non abituati a vedere delle bici. Non è stato facile avvicinarle, anche se l’essere donna ha facilitato la cosa, abbiamo dovuto mettere tutto da parte, il telefono ben nascosto in tasca, la macchina fotografica in spalla. Paradossalmente il cartellino press ha aiutato l’operazione, in qualche modo si sentivano sicure, non giudicate e aprivano letteralmente le loro porte. Abbiamo visitato un paio di case, sempre accolti con tripudio e con onore, anche nei posti più sperduti parlavano inglese e appena scoprivano che eravamo italiani per loro era come aprire un mondo nuovo. In poche sapevano cosa fosse veramente il ciclismo, tantomeno che quella che stava passando era una corsa di prestigio, per loro era semplicemente strano. Ai loro occhi tutti noi sembravamo dei marziani venuti dal futuro, nessuno giudicava l’altro, ma era palese che ci fosse interesse nei nostri confronti. Indicavano le bici che passavano, quando hanno scoperto che esisteva addirittura un team omanita hanno capito che tutto quello che stava succedendo era veramente importante. Avremmo voluto raccontare molto di più, ma non c’era mai tempo, la corsa proseguiva e noi dovevamo seguirla.
Durante tutto il nostro viaggio abbiamo scorto gli sguardi di tante donne che ci hanno fatto sorgere una domanda spontanea, ma presto assillante. Vi piacerebbe andare in bici?, lo abbiamo chiesto dalle città ai villaggi, senza malizia, assolutamente senza la possibilità di vederle atlete, solo per capire se nelle loro vite ci fosse il posto per il ciclismo. “Perché dovremmo?” ci hanno risposto con naturalezza lasciandoci effettivamente senza parole. Era qualcosa che non ci aspettavamo e che presto è diventato un ritornello continuo, ripetuto ancora e ancora. In questi casi non c’è spazio né per il giusto, né per lo sbagliato, né tantomeno per esprimere giudizi, possiamo solo riflettere. Noi appassionati di ciclismo abbiamo veramente un tesoro speciale tra le mani. In realtà però qualcosa lo abbiamo visto: il primo giorno alla partenza della Muscat Classic c’era una bambina con la bici rosa e le rotelle, lo sguardo sognante verso gli atleti. Accanto a lei il padre, in abiti tradizionali, era orgoglioso, si congratulava per la bella organizzazione e la indicava dicendo che era un giorno speciale. Forse non è niente, è solo un’anomalia o chissà, da qui potrebbe nascere il primo di tanti sogni.
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