Viene dal Paese dei fiori e adora la musica. In un certo senso Stijn Vriends, presidente e AD di Vittoria Spa da quattro anni, è un direttore d’orchestra, visto che ha senso del gruppo e del comando innato, che svolge con abile e amabile fermezza. Non viene da Sanremo, dove musica e fiori sono un tutt’uno, ma dalla patria di quei tulipani che sono simbolo della sua terra: l’Olanda. E la musica? È la sua passione, in particolare il sassofono, che suona appena può per liberare la mente e trovare dentro sé quell’armonia che con il sax si fa timbro caldo e avvolgente: sensuale.
Stijn Vriends è il nostro “Capitano Coraggioso”. Questo mese conosceremo meglio questo manager cinquantaduenne che da diversi anni si è stabilito in Italia con la famiglia e che ormai considera a tutti gli effetti il nostro Paese come una seconda Patria.
«Se mi trovo bene qui da voi? Moltissimo, altrimenti farei di tutto per cambiar aria, ma l’Italia è davvero bella. Se mi manca l’Olanda? Certo che sì; è il mio e il nostro Paese, ma qui da voi ci sentiamo a casa», mi assicura Stijn.
Come è stata la sua infanzia?
«Bella. In assoluto serena e gioiosa, all’aria aperta, come per tutti i ragazzini della mia generazione, che stavano fuori di casa a fare ogni tipo di sport o di gioco. Nasco il 15 maggio 1972 a Breda, parte cattolica d’Olanda (curiosità: la Cattedrale di Breda è intitolata a Sant’Antonio da Padova - Sint-Antoniuskathedraal-, ndr). Da ragazzino riempivo le mie giornate con tanto sport, in particolare l’hockey su prato, sport che ho praticato fino a 18 anni e in seguito ho anche fatto il coach. E poi, chiaramente, lo studio. Da noi le scuole medie non esistono: le elementari vanno dai 4 a 12 anni, poi le superiori dai 13 a 18. Io ho frequentato il ginnasio, dove ho studiato anche greco e latino. Quindi l’università, non più a Breda, ma questa volta a Delft».
In cosa si è laureato?
«Ingegneria meccanica».
Figlio unico?
«No, felicemente circondato da donne: ho tre sorelle più piccole e oggi che sono sposato ho anche tre magnifiche figlie. Mamma ha fatto per anni l’insegnante alle elementari seguendo il metodo di Maria Montessori, basato sulla responsabilizzazione e la scelta del bambino. Papà è stato invece per anni un dirigente in ambito edile. Prima direttore di alcune aziende, poi in proprio».
Il ciclismo quando lo scopre?
«Come sport fin da ragazzino, anche se non ne sono mai stato un patito. In Olanda in bicicletta è impossibile non andare: è il mezzo di locomozione prediletto da tutti, in particolare dai ragazzi».
Da ragazzo seguiva le corse in tivù?
«Qualcosa, diciamo che ero informato, ma con moderazione. Ho sempre buttato un occhio alle cronache delle maggiori competizioni e quando c’erano le tappe più importanti di Tour o Giro mi è capitato di seguirle con qualche amico, ma sarei un bugiardo se le dicessi che ero un grande appassionato».
Se le faccio i nomi di Zoetemelk e Kuiper, le dicono qualcosa?
«Certo che sì, come potrei non conoscere due immensi campioni che hanno fatto grande il ciclismo olandese negli Anni Settanta e Ottanta, al pari di un altro campione di prima grandezza come Jan Raas? Li seguivo in tivù e qualche volta mi capitava di andare a vederli dal vivo con i miei amici nei circuiti post Tour che si disputavano nella nostra zona. Diciamo che mi è sempre piaciuto il clima di happening che si veniva a creare attorno a questo tipo di corse e avvenimenti. Il ciclismo è un ottimo veicolo di aggregazione, per i ragazzi era il massimo».
Quando ha cominciato a lavorare?
«Ho iniziato prima ancora di finire gli studi universitari. Ero in Canada, lavoravo e studiavo. Ero stato preso per uno stage in un’azienda mineraria, correva l’anno 1997. Mi sono poi laureato in Olanda e sono andato a lavorare alla Tata Steel, un’acciaieria nei pressi di Amsterdam. Lì ci restai per un paio di anni, prima di essere trasferito sempre dalla Tata Steel ad una filiale in Belgio, visto che mia moglie (sposata nel 2020, ndr) aveva avuto un’ottima opportunità lavorativa in quel Paese. In Belgio ci restiamo tre anni e mi occupo sia di acciaio che di alluminio, poi nel 2003 sento l’esigenza di prendermi una pausa per fare un salto in alto e riprendere il mio cammino professionale. Torno allo studio e decido di fare un MBA (Master in Business Administration) in Svizzera, a Losanna per la precisione. Avevo capito che se volevo davvero fare di più, dovevo avere più competenze, più know-how. Per poter gestire un’azienda mi servivano altre informazioni: economia, finanza, marketing e la cosa più logica era fare un master. Dopo un anno torno sul mercato».
E l’Italia come compare nella sua vita?
«Per puro caso, come spesso accade. Inizialmente il piano prevedeva che noi tornassimo a vivere in Olanda, ma la vita vuole che io intercetti Andrea Guerra, che in quel periodo era il Ceo di Merloni Elettrodomestici, e mi convince di andare a lavorare in Italia, con tutta la famiglia: è gennaio 2004. Ci resto per tre anni: prima direttore operativo per il lavaggio con sede nello stabilimento di Brembate, un altro segno del destino, anche se io in quel periodo ne ero assolutamente ignaro. Ogni giorno, per andare in fabbrica, passavo davanti alla sede della Vittoria e l’ho fatto fino alla fine del 2006».
Cosa succede a quel punto?
«Colgo un’altra opportunità lavorativa. Passo alla Carraro di Campodarsego (Padova), con il ruolo di COO (chief operating officer, direttore operativo, ndr) e poi direttore generale del business unit dei trattori. Continuo a fare il pendolare, da Milano al Veneto. Dal gennaio 2015 sono invece CEO alla Faster di Rivolta d’Adda, azienda produttrice di componenti per trattori. Ci rimango per quattro anni, prima di andare a gestire l’integrazione tra una azienda olandese e una italiana - creando Ammega Group - che fa prodotti di gomma, nastri trasportatori e cinghie. È in questo periodo che incontro Rudie Campagne, il presidente di Vittoria».
Come avviene il vostro incontro?
«Entrambi eravamo stati invitati dal Console olandese a Milano, per una serata. Ci presentiamo, cominciamo a parlare e chi ha avuto la fortuna di conoscere Rudie sa che Campagne ha un’energia contagiosa: mi invita a visitare i suoi nuovi uffici di Brembate e da lì inizia in pratica tutto. In quel periodo Rudie cercava qualcuno che potesse prendere il suo posto, ma era anche interessato a cedere l’azienda. Così mi sono messo alla ricerca di un investitore che potesse garantire ad una realtà bellissima come Vittoria un futuro degno del suo passato e potesse assicurare ad una eccellenza dell’industria italiana un salto di qualità. Trovo la Wise Equity, specializzata nell’investimento in piccole e medie aziende italiane, una società di gestione del fondo Wisequity V (11 luglio 2020, ndr), Fondo interamente italiano, molto attento e scrupoloso, che mette al servizio di Vittoria le proprie competenze. Entro in Vittoria nel luglio 2020. In quel periodo fatturavamo poco più di 50 milioni ed ora - nonostante la brusca frenata del mercato della bicicletta e dei componenti - siamo oltre i 70 milioni, dopo aver toccato e superato nel momento boom di post Covid anche i 105 milioni. All’inizio del 2023 è entrato un altro investitore: Vittoria in pratica ha cambiato proprietà, visto che è stata acquisita da Telemos Capital, fondo d’investimento londinese, anche se Wisequity è restata con una quota minoritaria».
Come è oggi il mercato?
«Come le dicevo, dopo due anni super, il 23 e 24 sono stati anni molto complicati e difficili, per tutti. Il mercato non è ancora ripartito, anche se vediamo segnali di ripresa nell’after-market, ma non ancora tra i costruttori di biciclette. Penso che il 2025 sarà ancora un anno di sacrificio e transizione, ma dobbiamo stare pronti: l’attesa sta per finire».
Lei va in bicicletta?
«Sì e mi piace moltissimo. È un modo perfetto per stare in forma e allenare anche la mente, visto che la bicicletta è un mezzo che ti consente sia di stringere amicizie sia di pedalare affinando il pensiero. Non è un modo di dire: in bicicletta si prendono sempre delle buone decisioni. In bicicletta ci si confronta con grande lucidità. Inoltre, il mondo della bicicletta, e in questo caso parlo di business, mi piace un sacco, perché è un mondo gentile, dove regnano molto rispetto e correttezza. Noto che chi entra nel ciclismo, ci resta. Di contro, per molti aspetti, trovo che sia ancora un ambiente molto acerbo e per certi versi immaturo, nel quale c’è grande margine di crescita e questa è la cosa che più mi piace, che mi stimola a progettare e a fare cose nuove».
Quando non lavora cosa ama fare? Qual è la sua passione?
«Mi piace stare in famiglia, andare a fare dei viaggi con mia moglie e le mie ragazze e, quando posso, suono il sassofono. Sa che mi piace anche cantare?...».
Quale è il suo cantante preferito?
«Non ho dubbi: Frank Sinatra. Nessuno come lui».
Che musica ama?
«Il jazz, quindi, di conseguenza, le anticipo la domanda: come musicista per me c’è Charlie Parker, quello che è considerato da tutti come il padre del jazz moderno. Un sassofonista pazzesco».
Lei suona bene?
«Direi di no, suono. Ma questo poco importa, quello che conta è farlo con impegno e passione. È come andare in bicicletta: se in bici dovesse andarci solo quelli che vanno forte come Pogacar, non pedalerebbe nessuno. L’importante è dare il meglio di sé, provare a misurarsi, con impegno e dedizione, con continuità. Esattamente come in qualsiasi altra cosa della vita. La musica educa, la musica ci rende migliori. Sa perché suono?».
Perché?
«Perché mi piace un sacco. Lo sa che è una buonissima ragione?».
E i vicini cosa dicono?...
«Spero che apprezzino… a parte le battute, cerco di suonare nei momenti più idonei, cercando di non disturbare più di tanto. Per il momento nessuna lamentela».
Cosa ama del tuo strumento?
«Prendermene cura. Ho scoperto qualche tempo fa un artigiano bravissimo che rimette a posto gli strumenti in maniera sublime. Si chiama Paolo Sartori ed è il titolare de “L’ancia e L’ottone”, un laboratorio di riparazione e vendita di strumenti musicali di Cernusco sul Naviglio (Milano, ndr) che ha rimesso a nuovo i miei tre sax. Sono strumenti importanti, dal punto di vista affettivo ma anche oggettivo. Hanno quasi 100 anni, sono bellissimi, sono oggetti di valore che necessitano di una manutenzione quotidiana attenta e scrupolosa. Ora che li ho risistemati, anch’io appaio più bravo, perché il suono è chiaramente più pulito e caldo. Ne vado orgoglioso».
Ama il cinema?
«Chiaro che vedo i film, ma non posso definirmi un cinefilo, anche se in un certo periodo della nostra vita, appena giunti in Italia, io e mia moglie ricevevamo costantemente degli inviti da amici italiani che ci proponevano film. È stato un vero e proprio un rito iniziatico: una volta alla settimana un film della vostra bellissima cinematografia italiana. In pratica abbiamo partecipato a dei cineforum in piena regola, a delle rassegne quasi complete dedicate a Fellini e Rossellini, De Sica e Sergio Leone, i fratelli Taviani e Luchino Visconti, Sorrentino, Bertolucci fino a Benigni e Troisi. Se oggi sentiamo dire: “Chi siete, dove andate, cosa portate”…, non solo comprendiamo il senso comico di questo modo di dire, ma sappiamo anche a quale film si riferisce (“Non ci resta che piangere”, ndr)».
Le piace vivere a Milano?
«Moltissimo. È una città molto bella, elegante e accogliente, anche perché è a misura d’uomo, grande il giusto».
C’è un luogo del cuore che lei e sua moglie considerate il vostro nido?
«Abbiamo una casa sulle colline piacentine, quello è il nostro “buen retiro”. Natura, semplicità, strade protette, ideali anche per andare in bicicletta, soprattutto con la gravel».
Niente bici da strada?
«Ogni tanto anche quella».
Un fiore?
«Che domande: il tulipano, non potrei certo dire altrimenti».
Cosa le manca dell’Olanda?
«Trovo che in Olanda ci sia più equilibrio tra uomo e donna. C’è più rispetto ed equità, anche se in Italia negli ultimi anni si sono fatti passi in avanti notevoli. E poi l’Olanda è molto efficace: tutto è più organizzato e semplificato, c’è meno burocrazia. Milano in ogni caso non è assolutamente male: veloce, concreta e spontanea».
Cosa pensa degli italiani?
«Sanno accogliere e farsi voler bene: come si fa a non andar d’accordo con voi italiani?».
Di cosa va orgoglioso?
«Della mia famiglia, che è una gran bella famiglia. Dal punto di vista lavorativo sono orgoglioso della realizzazione del Vittoria Park. Un luogo per l’innovazione, l’animazione e il divertimento aperto a quanti amano la bicicletta, a chi vuole pedalare in tranquillità in uno spazio protetto non lontano dalla città. Questo spazio ha letteralmente cambiato il volto di Vittoria. Inoltre vado fiero anche della nuova unità produttiva che abbiamo varato in Thailandia per la produzione dei copertoni in materiali naturali, come il cotone e la seta. Un’azienda modello che è assolutamente ad impatto zero. Un vero gioiello di tecnologia green. Queste sono due cose che mi rendono orgoglioso perché hanno identificato e segnato in maniera indelebile il nuovo corso della Vittoria gomme».
Cosa riserverà il vostro futuro?
«Tra poco usciremo con prodotti sostenibili che sono fatti con più del 90% dei materiali naturali o riciclati, a ridotto impatto ambientale, con i quali porteremo i componenti del ciclismo in un’altra dimensione, un luogo dove Vittoria già da un po’ opera e si trova».
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