CAPITANI CORAGGIOSI. PAOLO GUERCIOTTI: «UNA VITA TRA LE BICICLETTE, MILLE CORSE, MILLE MAGLIE E... DUE GIOIELLI». GALLERY

TUTTOBICI | 05/07/2024 | 08:11
di Pier Augusto Stagi

All’inizio fu Mosé, anche se le tavole in questa storia c’entrano poco, perché qui si narra ancora oggi di ruo­te e mozzi, pedivelle e ma­nu­bri. Nessuna separazione delle acque, ma unione d’intenti tra Italo e Paolo: i due fratelli Guerciotti.


Correva l’anno 1964 e per tre anni le biciclette Guerciotti furono firmate in realtà Mosé, per completezza d’informazione Mosé Allievi, che negli anni Cinquanta e Sessanta in via Petrella, a pochi metri da corso Buenos Aires, era uno dei punti di riferimento per i ciclisti di Milano e dintorni. Per tutti era semplicemente “il Mosé” - rigorosamente con l’articolo molto meneghino - e così, per tre anni, anche i fratelli Italo e Paolo decisero di proseguire a firmare le loro bici con un nome che era nel lessico dei fruitori di biciclette della cit­tà meneghina.


«Era il 2 gennaio 1964 - mi racconta oggi Paolo, “capitano coraggioso” di questo mese, che ha da poco festeggiato i sessant’anni di attività con la sua famiglia alla Terrazza Martini di Mi­lano -. Io avevo appena compiuto 18 anni, Italo ne aveva già 32. Mosé era da tempo che ci esortava a rilevare la sua attività, alla fine Italo si decise e fece il grande passo. “Ci proviamo noi!”, mi disse un giorno. Aveva appena concluso la sua buonissima carriera da corridore ciclocrossista e desiderava restare nell’ambiente delle corse, come del resto io. Rilevammo l’attività per 3 milioni di lire, più altri 3 per quello che c’era in magazzino. Chiedemmo di po­ter pagare a rate, ma dopo un anno ave­vamo già saldato tutto».  

Nel negozio “del Mosè” erano passati fi­no ad allora tanti corridori, anche pro­fessionisti del calibro di Van Steenbergen, Gianni Motta, Van Looy e Defilippis. Alla vigilia di corse di cartello come la Milano-Torino, la Mila­no-Sanremo o il Giro di Lom­bardia, era facile fare incontri importanti, con grandissimi campioni dell’epoca.

«Per questo una volta acquistato il ne­gozio, abbiamo proseguito fino al 1968 con il nome più conosciuto di Mosé, anche per far capire alla clientela che c’era una continuità, che non eravamo dei “barlafus”, dei ciarlatani poco raccomandabili», precisa con la sua parlata contraddistinta dalla “r” arrotata autentico marchio di fabbrica Paolo.

Quella è stata la vostra palestra.
«Esattamente. Il negozio di via Petrella era piccolino, di soli 20 metri quadrati. Aveva una sola luce. Sulla sinistra c’era la porta con i vetri pieni zeppi di decalcomanie, sulla destra la vetrina. Una ve­trina divisa in due: nella parte superiore c’erano i componenti meccanici e in centro c’era una bicicletta con il me­glio degli accessori: bloccaggi, cambi e de­ragliatori Campagnolo, catene e ruo­te libere Regina Extra, guarniture e pe­dali Magistroni, freni Universal, selle Brooks, cerchi Nisi o Ambrosio, nastri Gaslo, fermapiedi e cinghietti Binda, borracce, portaborracce, ogni ben di dio. Nella parte inferiore trovava po­sto l’abbigliamento: maglie, calzoncini, scarpini, maglioni invernali, pantaloni alla zuava, berretti di lana e di tela, guan­tini senza dita, creme e olio canforato».

Lei è milanese doc.
«Orgogliosamente milanese, profondamente innamorato di Milano, anche se mamma Celestina e papà Osvaldo era­no originari di Crema: giovanissimi si erano trasferiti in città. Io nasco il 16 settembre del 1945 all’Ortica, zona cantata da Enzo Jan­nac­ci, con la sua famosa “banda”, an­che se il mio cantante del cuore, il più grande di tutti è Adriano Celentano: se sento “Il ragazzo della via Gluck”, mi viene ancora un tuffo al cuore (Micaela e Alessandro, difatti, in occasione della festa hanno accolto papà con questo sottofondo mu­sicale…, ndr). Sono il quarto di quattro fratelli: Italo, il più grande, era del ’32; Luciano del ’33; Giuseppe per tutti Peppino era del ’37 e poi il sottoscritto, l’ultimo rimasto. Papà per anni ha fatto il prestinaio, il panettiere, poi nel ’59 comprò la licenza di una trattoria, “I tre basei”, i tre gradini per chi non è milanese. È andato avanti fino al 1966, anno in cui si è guadagnato la meritata pensione con i soldi ricavati dalla licenza».

Le scuole?
«Le elementari alla Enrico Toti a 300 metri da casa mia. Le medie in via Pi­sacane. Al primo anno mi bocciano, così lo ripeto. Vado in seconda e mi ri­mandano a settembre: alla fine mi bocciano ancora. Papà mi guarda in faccia e mi dice: “forse è il caso che tu venga a darci una mano in trattoria”. Vado e mi diverto un sacco. Ricordo che gli operai mangiavano primo se­condo e contorno con companatico e un bicchiere di vino per sole 380 lire. Un altro mondo, altri tempi».

Quando entra nella sua vita la bicicletta?
«Fin da subito, forse da sempre. Sono nato e cresciuto in mezzo alle biciclette, perché i miei fratelli hanno sempre corso. Io ero innamorato pazzo di Ita­lo, perché era forte e perché vinceva. Andavo a seguirlo con le ruote tra le mani, per essere pronto nel momento del bisogno. Italo sul finire della sua car­riera è passato a correre per la Eu­ro­­phon di Romano Ferri, il quale gli aveva assicurato anche un lavoro: al mattino lavorava e al pomeriggio poteva uscire prima per andarsi ad allenare».

Lei quando si avvicina al ciclismo?
«In incognito, nel senso che non avevo l’età per correre, ma grazie ad un mio cugino, Stefano Guerciotti di Truccaz­zano che aveva un anno più di me es­sendo del ’44, corro di straforo a In­zago. Lui va a ritirare il numero e poi me lo cede. Insomma, la prima corsa è una furbata, anche se solo dopo 30 km sono costretto a fermarmi perché poco allenato».

Quando comincia a fare le cose più seriamente?
«Nel 1961, primo anno da esordiente: vinco cinque corse. La prima di queste è a Cusano Milanino e a premiarmi è un certo Giovanni Trapattoni: io non so nemmeno chi sia, ma lo scoprirò in seguito. Secondo anno otto vittorie. Ricordo che in quel periodo ogni volta che vincevo andavo in via Mecenate alla sede della Europhon, azienda di elettronica di consumo, per portare ad Andrea Zenesini (che fondò l’azienda nel 1949, ndr) coppa e fiori e lui mi regalava regolarmente una radiolina oltre a tremila lire. Pensi che tutti quei risparmi li custodivo in una scatola di ferro sigillata, con una sola fessura posta nella parte superiore: non la si poteva assolutamente aprire. La aprirò solo grazie ad una sega circolare qualche anno dopo, per dare i soldi a Italo e contribuire all’acquisto della licenza di Mosé: dentro c’erano quasi ottocentomila lire».

Ragazzino sveglio.
«Beh, anche. Quando nel ’66 vado a militare finisco nell’aeronautica. CAR (centro addestramento reclute, ndr) ad Albenga e poi mi assegnano alla caserma di piazza Novelli a Mi­la­no. Quando arrivo mi presento al maresciallo che mi scruta da cima a fondo e mi chiede: “Lei cosa fa?”. Il barista! “Ma da dove viene?” Da Milano! - rispondo -, abito in via Pe­trella, zona corso Buenos Ai­res. “Ma sono meno di due chilometri da casa sua: allora è un raccomandato!” E io nooo, assolutamente nooo».

Ma lo era o non lo era?
«Certo che sì. Qualche mese prima si era presentato in negozio un importante colonnello dell’aeronautica che voleva acquistare una bella bicicletta Guer­ciotti. Io lo trattai non solo bene, ma benissimo. Ad un certo punto mi chiese: “Hai già fatto il militare?” No, la mia risposta. “Ti piacerebbe farlo nell’aeronautica?”.  Certo colonnello! “Dove vorresti andare a fare il Car?”.  «Se lo faccio in estate sicuramente al mare», rispondo. Finisco ad Albenga per poi essere trasferito a Milano in piazza Novelli. È un servizio militare molto particolare, anche perché dopo pochi mesi mi si lussa la spalla (lussazione abituale, ndr) e quindi sono co­stretto ad operarmi al Rizzoli di Bo­logna, all’epoca eccellenza in ortopedia. Mi applicano un chiodo d’argento, che non ho più tolto e in pratica il mio militare finisce lì».

Grazie alla divisa conosce l’amore della sua vita.
«Come dice Mary (Cremascoli, ndr) ero proprio un bell’aviere. È il 1966 e la conosco al “Ragno d’Oro”, una sala da ballo in piazzale Corvetto. Io non ho mai amato ballare, solo un pochino i lenti, dove si poteva pomiciare, però mi piacevano un sacco le belle donne e Mary lo era per davvero. È stato amo­re a prima vista e ci sposiamo nel 1969».

A proposito di divise, lei nel ciclismo por­ta anche uno stile molto personale.
«Mi è sempre piaciuto un sacco essere riconoscibile: ci ho sempre giocato un po’, tra il serio e il faceto, ma è servito per farmi conoscere: stivaletti texani con borchie e cuciture belle visibili, pelliccia e colbacco da cosacco alternato a un cappello texano da cow-boy. Colori sgargianti. Insomma, nel mio piccolo, sono diventato un brand: il frontman della Guerciotti».

Un marketing manager nato.
«Non dica così, che se la sente Micaela - mia figlia - potrebbe anche mettersi a ridere, visto che lei una laurea in mar­keting ce l’ha per davvero. Diciamo che mi sono sempre arrangiato. Pensi che ho corso in un periodo molto bello del ciclocross, forse il più glorioso in assoluto. Correvo con il vero “re” della specialità, Renato Longo e con lui c’erano i Garbelli (sì, Domenico, ndr), Gatto, Torresani, Sfolcini, Colzani e qualche anno dopo è arrivato Franco Vagneur, con Livian, i fratelli Uboldi - Felice e Mario -, Flaiban e con loro anche stradisti di grido come Franco Bitossi e Miro Panizza. Correvo in maglia GBC (dal ’67 all’80, quando smise: più di cinquanta le vittorie, tra Federazione e Udace, ndr) quella dell’amico Jacopo Castelfranchi, titolare del marchio, che era sincero amico di una leggenda delle telecronache sportive, Adriano De Zan. Uscivano in bicicletta quasi tutti i giorni, accompagnati da amici di una vita come Sante Gaiar­doni e Marino Vigna, Nico De Lillo e Franco Cribiori, Carlo Rancati e Poiano e qualche volta si inseriva anche il leggendario An­tonio Maspes. Bene, io in quel periodo mi ero inventato il ruolo del fuggitivo di professione. Pronti via e io ero già all’attacco: due giri a tutta in favore di telecamere, come se non ci fosse un do­mani, come se il traguardo fosse lì ad un passo. Questo perché in quel pe­riodo le corse erano date in diretta e c’era quindi la tivù. Due giri di pubblicità assicurata, di visibilità conquistata. “Ecco Paolo Guerciotti in fuga, corridore della Gbc Televisori, fratello di Ita­lo, grande crossista…” raccontava con enfasi Adriano De Zan.
Io ero contento, Jacopo Castelfranchi anche di più».

Lei è unanimemente riconosciuto come il signore del ciclocross…
«Da corridore mi sono divertito, da manager mi sono tolto tantissime soddisfazioni, ma spero di togliermene altre: in fondo, sono ancora un ragazzo. Le ricordo solo i titoli mondiali conquistati: dieci. Le faccio i loro no­mi, che sono poi una gran bella fetta della storia del ciclocross: Liboton (2 volte) e Pontoni, che hanno vinto tra i professionisti, Di Tano (2 volte) e Mi­ke Klu­ge, Karel Kamarda e Andrei Glay­za, Henrik Dyernis e Radomir Si­munek. Titoli italiani? Saranno più di cinquanta, così come una ventina i titoli nazionali conquistati nelle loro na­zioni di appartenenza dai nostri ragazzi».

Anche lei, però, ha vestito la maglia az­zurra…
«Sì, ai mondiali del 1979 a Saccolongo: 12° posto finale. La cosa bella è che ero corridore e patron della mia squadra, che avrebbe festeggiato il primo titolo mondiale vinto con Vito Di Ta­no».

Il Trofeo Mamma e Papà Guerciotti oggi è tradizione.
«Sono ben quarantaquattro le edizioni disputate, una vita: credo che ormai faccia parte del lessico famigliare delle corse fangose».

Tanti gli amici del ciclismo.
«Tanti, difficile fare una lista, li ho tutti nel cuore. Armando Zamprogna mi man­ca parecchio, così come il “gigante” Marzio Gazzetta. E poi c’è Giu­sep­pe Bigolin, amico di una vita. Oggi ne ho anche trovati di nuovi, come Lucio Dognini della Fas Airport Service e An­gelo Tonoli della Premac, ma persone da raccontare dopo sessanta’anni di lavoro ne ho davvero parecchie: erano clienti, oggi sono amici».

Lei ha fatto però grandi cose anche nel mondo professionistico su strada.
«Vero anche questo, sono il signore del fango, ma anche su strada abbiamo il nostro piccolo grande nome. Nel 1979 corriamo anche il Tour de France con la Magniflex diretta da una leggenda del ciclismo come Luciano Pezzi. La squadra aveva corridori come Gibì Ba­ronchelli, Bernt Johanson e Walter Po­lini. L’inizio su strada, però, è datato 1977, con la Fiorella Mocassini di Gio­vanni Battaglin e Carmelo Barone. Poi ci saranno la Famcucine di Alfio Vandi e l’Alfa Lum di Primo Fran­chini. Ma anche la Santini Selle Italia con Beppe Martinelli o la Dromedario Sidermec di Giorgio Vannucci. Negli anni più recenti siamo stati vicino alla Lpr di Omar Piscina e poi alla Androni Gio­cattoli di Gianni Savio, che ha avuto in squadra corridori di grandissimo valore come Michele Scarponi e Davide Rebellin, ma anche gli amici di una vita come Gibo Simoni e Alessandro Ber­to­li­ni. Per arrivare alla Miche sempre con Rebellin e alla Meridiana, oltre alla polacca CCC e alla Bardiani Csf di Bruno e Roberto Reverberi. Insomma, un po’ di strada - nel vero senso della parola - l’abbiamo fatta».

Torniamo all’azienda: nel 1977, un’altra fuga solitaria…
«Diciamo un allungo, perché resto con mio fratello, che come meccanico è dav­vero un numero uno, ma io ho una visione diversa dell’azienda, quindi ac­quisto le sue quote e divento a tutti gli effetti il proprietario unico della mia pic­cola azienda. Ci allarghiamo e an­diamo in via Tamagno, 2. Nel ’78 conosco un americano, proprietario della Ten Speed Drive che diventerà il mio distributore per dieci anni per gli Stati Uniti e il Canada.  A cavallo tra 1983 e ’84 amplio nuovamente la struttura e andiamo in via Pasteur 1/A, dove creo di fatto la mia Guerciotti Export. Lì ci restiamo fino al ’95, per poi trasferirci in viale Monza 122, in un ambiente di 600 metri quadri, fino al 2000. Infine, eccoci ai giorni nostri, in via Petrocchi 10: 1.500 metri quadri di uffici e ma­gazzino, dodici persone impiegate e un fatturato di quasi otto milioni di euro».

Oggi lei è però il presidente…
«Come è giusto che sia, perché non so­no più un ragazzino (a settembre sa­ranno 79, ndr), anche se lo spirito è sempre lo stesso. Oggi il Ceo è Ales­sandro, mio figlio, bravissimo, non perché è il nostro ragazzo, ma perché è il mercato a dirlo. È il nostro mondo del­la bicicletta a confermarlo. Da qualche anno è sulla tolda di co­mando e sta dimostrando passione e competenza, spirito di ap­partenenza e grande vo­lontà. Mia mo­glie ed io non possiamo che esserne felici. E lo stesso discorso vale per Mi­caela che, dopo un lungo periodo di lavoro in diverse aziende multinazionali, nel giugno dello scorso anno è entrata anche lei in azienda e si occupa di marketing e degli aspetti commerciali. Lei è un piccolo vulcano, piena di energia e voglia di fare».

Avrà preso da qualcuno…
«Probabile. Micaela è davvero esuberante e assomiglia chiaramente al sottoscritto, Alessandro è più riflessivo e ha decisamente preso più dalla mam­ma. In coppia formano davvero una grande squadra: loro sono il nostro orgoglio più grande, loro sono il nostro futuro. Le confesso una cosa, di biciclette in 60 anni ne abbiamo fatte e vendute tantissime e tante ne faremo ancora, ma i Guer­ciotti che sono venuti meglio hanno due nomi speciali, anzi, specialissimi: Alessandro e Mi­caela. Sono proprio un gran bel tandem».

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