Lo farà lentamente accanto ad un amico, che ora è molto di più di un compagno di allenamento, anche perché Mirco è chiaramente una di quelle persone che hanno contribuito a riportare al ciclismo Marta Cavalli, che in un momento preciso della sua vita aveva anche pensato di abbandonare la bicicletta.
Incontro Marta nella nostra redazione. Ci viene a trovare, ha voglia di raccontarsi dopo mesi difficili. Ha ritrovato la leggerezza del pensiero e il suo sorriso si riflette anche nei suoi occhi. Timida, riservata e pudica quanto basta, ha voglia di sussurrare quelle parole che alle nostre orecchie hanno un suono lieve, come il fruscio di una ruota di bicicletta. «Ho ritrovato il piacere di stare in sella: non mi fa più paura», mi dice.
È stata dura, per lei e per chi le è stata accanto. La paura di uscire in bicicletta l’ha accompagnata per mesi. Non c’è un motivo scatenante, un fatto che possa segnare in maniera chiara e precisa l’inizio di quello che poteva essere la fine della sua carriera. La caduta al Tour del 25 luglio 2022? Forse. Ma è una serie di episodi, una sommatoria di situazioni che hanno contaminato la mente di una ragazza che ad un certo punto si è ritrovata imprigionata nei suoi pensieri, che si sono tramutati in paura.
«Ho terminato la seconda tappa della Vuelta, il 29 aprile scorso. Quella giornata mi è rimasta addosso per tanto tempo – mi racconta -. Tante cadute, un accumulo di stress infinito. Troppo grande era la paura, così come l’incapacità di reagire, di tirarmi fuori, tanto è vero che il giorno dopo non me la sono sentita di ripartire».
Cosa si è rotto?
«Era cambiata la priorità. Non mi interessava più arrivare per prima al traguardo, ma il mio obiettivo era solo quello di arrivare sana e salva. Troppo poco per un’atleta, troppo difficile per una come me che era abituata ad altro».
A gennaio ti eri anche rotta l’acetabolo.
«Una caduta a Calpe, quando ero in ritiro con tutta la squadra. Sono scivolata in modo banale, ma quella è stata solo una botta. Tre settimane di stop e poi di nuovo a pedalare, con il sogno del Giro davanti a me, anche se nella testa giravano brutti pensieri. Sentivo di non avere più la leggerezza della ragazzina che si diverte a correre in bicicletta. La testa era intossicata da troppi pensieri negativi».
Quello ricorrente?
«Tornare a casa. Avevo perso la gioia di stare in sella. Da ragazzina vivi l’età dell’innocenza che coincide con quella dell’incoscienza. Io mi sono trovata a pensare troppo».
Quante gare hai fatto?
«Cinque. Il Trofeo Binda, la Freccia Vallone (9a), la Liegi e due tappe alla Vuelta. Il problema era però che il pensiero ricorrente era: ma chi me lo fa fare? La mia mente era occupata da altri pensieri. Mi piace allenarmi, ma mi manca la leggerezza dell’agonismo. Ne parlo con il mio preparatore Flavien Soenen, lui mi dice: prenditi un po’ di tempo per te. Pedala con il solo obiettivo di divertirti. In quelle tre settimane mi sono fatta guidare solo dal desiderio di pedalare come volevo quando volevo e con chi desideravo. Libera, senza tabelle o obiettivi: mi sono presa il mio tempo».
Il 5 luglio, però, l’impatto con una macchina.
«Investita ad una rotonda nei pressi di Maleo (Lodi). Finisco rovinosamente contro una macchina, sbatto violentemente sul parabrezza e la bicicletta si spezza in tre. Sono scossa, mi sento assolutamente vinta. Mi dico: ora basta! Per quaranta giorni non ne voglio più sapere, non ho più una bicicletta e non ne voglio avere una nuova. Voglio solo godermi la quotidianità. Me ne vado due settimane al mare in Costa Azzurra con degli amici, anche loro ciclisti. O meglio, loro con la bicicletta, io no: solo spiaggia».
C’è anche Mirco.
«C’è anche lui ed è lui a cambiare con assoluta calma e dolcezza lo scorrere delle cose. Prima con qualche battuta, poi con gesti concreti. Siamo amici, diventiamo qualcosa di più. “Dai, non lasciarmi uscir da solo…”, mi dice. Alla fine mi decido. È il 10 agosto, un pomeriggio, esco da sola, per quaranta minuti: da quel momento sono tornata a pensare che la bicicletta è la cosa più bella che ci sia…».
Dopo Mirco…
«Anche. Se è per questo anche dopo la mia famiglia, tutte persone che sono servite per tornare a rivedere la vita sotto una luce diversa».
Adesso anche i tuoi occhi hanno una luce diversa.
«Dici? Mi sento molto più serena. Ho voglia di tornare a fare quello che ho sempre fatto per pura passione».
Adesso lo puoi fare con un tifoso in più.
«Mirco (Remondini, ndr) è un panettiere, condividiamo la passione per i forni e i fornelli: lui fa il pane, io i dolci. In più entrambi andiamo in bicicletta. Lui lo fa da amatore, ma ha corso, sa cosa significa. Al mio fianco ha rivissuto quello che aveva passato lui - i tormenti e le paure che spesso assalgono gli atleti - e mi ha aiutato a rialzarmi».
Adesso c’è anche una nuova maglia che ti aspetta.
«Devo in ogni caso ringraziare dal profondo del cuore la FDJ Suez, che stata davvero paziente e carina, ma ha trovato quest’anno una Marta troppo fragile e spaventata. Adesso il mio manager, Fabio Perego, ha incontrato una nuova realtà, la DSM che si è fatta avanti per sapere quale fosse la mia situazione, e qualche settimana fa abbiamo trovato un accordo per provare a riattaccare il numero sulla schiena. Io con loro sono stata chiara: vengo da una situazione complicata, ho voglia di rimettermi in gioco, datemi però tempo. Loro mi hanno mostrato immediatamente comprensione e disponibilità».
Cosa chiedi alla nuova stagione?
«Di ritrovarmi. Mi piace l’idea di rimettermi il numero sulla schiena, sento le sensazioni di una volta».
Ti stai già allenando?
«Assolutamente sì e non vedo l’ora di fare il primo raduno con il nuovo team, penso che possa solo farmi bene. Ho voglia di tornare a fare gruppetto».
E mentre lo dice gli occhi si illuminano di una luce nuova, non è solo quella dell’amore o forse sì.