Finito il programma mondiale, andata come sapete la gara professionistica su strada individuale, indetta ufficialmente e magari patriotticamente per squadre nazionali ma commercialmente, pubblicitariamente e agonisticamente ancorché nascostamente offerta ad atleti di passaporto diverso e casa madre eguale, mi autoesimo dal commentare l’esito della gara in sé e si capisce tutto il troppo ampio contorno di prove “minori” specifiche per questa o quella categoria pedalante, e semplicemente scrivo che la maglia iridata ormai significa poco o nulla. In primis perché ne vengono attribuite troppe con troppe sigle e la minaccia concretissima è che il numero cresca. Già si vedono troppe prove inutili o ridicole, magari appoggiate in maniera balorda ad una novità nella costruzione della bicicletta (a quando lo strumento per pedalare sulla Luna o su Marte?), e il timore è che prevalga - ci sono prodromi grossi assai - l’urgenza maledetta di spettacolarizzare, cioè di interessare comunque, onde convogliare sotto i propri strampalati palcoscenici interesse e addirittura allegria di fans ebeti o inebetiti, e plaudenti. Tanto circo e poco sport, insomma.
D’altronde se chiedete ad un corridore quale maglia in primis lui sogna, mica vi dice quella iridata, fra l’altro anch’essa un po’ arlecchinesca, ma quella gialla finale del Tour de France, portabile quel giorno e su blandi circuiti di paese. Staccate in questa classifica ma pur sempre beneamate le maglie di vincitore di Giro o Vuelta, anch’esse maglie non portabili, come invece quella iridata, nelle prove diciamo usuali del calendario. Da dire, con invidia, che il vincitore del Tour de France viene “visto” sempre in maglia gialla anche se lui pure soggiace al rito, arlecchinesco eccome, della maglia di squadra, commerciale.
C’è pure secondo me un momento ufficiale in cui il ciclismo ha accettato la legge del giallo-Tour: trattasi del 1953 allorché Coppi, che l’anno prima aveva rivinto Giro e Tour nello stesso anno, sentì più che la voglia il bisogno di maglia iridata, lui il corridore ottimo massimo che stava facendo la grande storia del ciclismo, e si pappò il titolo mondiale nel Canton Ticino, fra l‘altro facendo affiorare nelle fotografie della premiazione la creatura che gli condizionò la vita da allora alla fine (1960), la Dama Bianca felice mentre l’ormai suo Fausto vestiva l’iride, anche l’iride: non era stato il massimo titolo a mancare sin lì al Campionissimo, era stato lui a mancare all’elenco dei vincitori.
La maglia di campione del mondo in prova unica soggiace poi a troppi condizionamenti: c’è la giornata no misteriosa che blocca il favorito, ci sono coalizioni extranazionali che addirittura riguardano già contratti nuovi, clandestini per l’anno che verrà, ci sono percorsi toppo adatti ed adattati a certi corridori, c’è l’iterazione nel circuito di fatiche particolari, come ad esempio quelle scaturenti dalla somma di brevi salite da ripetere più volte, una cosa tutta diversa dalla scalata lunga, impegnativa ma unica nlla giornata.
Nella storia mondiale c’è abbondanza di corridori decisamente qualunque, corridori frilli (il termine è del ciclistese antico, dice di estemporaneità positiva ma anche di provvisorietà definitiva) che diventano campioni del mondo da quasi sconosciuti, al traino di circostanze particolari ed irripetibili.
A chi non è d’accordo proponiamo questo panorama: ci sono sempre più vincitori di grandi gare ciclistiche, dal Tour in giù, che non sono come nel passato italiani o francesi, belgi o olandesi, tedeschi o svizzeri, statunitensi o canadesi, ma che provengono da etnie immense o piccolissime (timidamente l’Africa o prepotentemente la Slovenia, che non è solo Pogacar). Fra poco il ciclismo degli alti ordini d’arrivo, Tour o “monumenti”, sarà occupato anche da cinesi e indiani, i sudamericani saranno sempre più numerosi, strariperanno i britannici e si batteranno sempre bene gli scandinavi (presto o tardi, arrischio, salterà fuori un grande di Norvegia, altro che il danese antiPogacar del Tour), esploderanno i giapponesi che sono gli scandinavi dell’Asia. E neozelandesi e australiani saranno anche maori ed aborigeni. Questo significherà semplicemente e splendidamente l’universalità del ciclismo nuovo, la fine del villaggio italofrancobelga dominante sino a poco fa, con un respiro mondiale garantito da etnie nuove e possenti. Questo per il gran bene assoluto del ciclismo, lo avete mai pensato?
Ps Italiani mai pervenuti, in questo articolazzo come sul traguardo di Zurigo. Personalissimissimamente chi scrive è indeciso fra ottimismo sul futuro dei giovani azzurri, che almeno non si beccano l’era Pogacar il quale si annoierà pure, una proposta di grossa inchiesta ricca di bla-bla-bla o l’attesa di interventi di Monsignor Tempo e Madonna di Lourdes.