“Il Fante del Grappa” stavolta non c’è. Emilio Casalini è morto il 14 gennaio, quattro mesi fa. Un uomo semplice, un gregario generoso, un vincitore eroico.
Accadde al Giro d’Italia, era il 1968, la decima tappa, la Trento-Monte Grappa, ma prima c’erano anche il Passo di Sommo, Folgaria e Valdastico, in tutto 136 km, in maglia rosa Michele Dancelli. Casalini, in fuga con Campagnari e Capodivento (era la giornata dei corridori che cominciavano con la C), fece tutto da solo e da solo arrivò al traguardo davanti a Bruno Raschi, busto fuori dalla macchina del direttore di corsa Vincenzo Torriani, volto pacifico e sorriso soddisfatto (il Divino era parmigiano di Borgo Val di Taro), e soprattutto davanti a Eddy Merckx che, sulle ultime rampe, staccò Gabica, Gimondi e Zilioli, Galera, Dancelli e Jimenez, tre italiani e tre spagnoli, alleati ma impossibilitati. Merckx e Casalini correvano insieme nella Faema, Merckx da Merckx e Casalini da gregario. Ma da gregario Casalini rispondeva più ad Adorni che a Merckx. E Adorni parlamentò con Merckx. E l’onnipotente Merckx, c’è da giurarlo, pensò di essere stato, se non tradito, un po’ circuito dagli italiani.
Casalini era nato in una frazione da gregari, a Cornocchio di Golese, una decina di chilometri a nord di Parma. E del gregario aveva tutte le qualità: la generosità, l’umiltà, la fedeltà. Lo fece alla Bianchi nel 1965, e uno dei suoi capitani era quel matto di Meo Venturelli. Lo fece alla Legnano nel 1966, e il direttore sportivo era ancora quell’avvocato di Eberardo Pavese. Lo fece alla Salamini nel 1967, la squadra di casa e del suo amico Adorni, cui si dedicò con devozione e rispetto. Lo fece alla Faema per Merckx, con quell’unico giorno di libertà condizionata, e alla Salvarani per Gimondi. Maurizio Ricci, uno che di corridori se ne intende, ha definito la sua carriera “onesta”. Non c’è aggettivo migliore. Quelli erano tempi in cui i gregari venivano premiati proprio per gli aiuti che garantivano al capitano, non per i punti che portavano alla squadra.
“Il Fante del Grappa”, due altre medaglie (vittorie al Giro di Sardegna e in una cronostaffetta al Giro: per saperne di più, un articolo del nostro Figini), si congedò nel 1973 a neanche 32 anni, lasciò il ciclismo, ma non gli amici del ciclismo. E alla “Bici al chiodo”, una calorosissima rimpatriata degli ex, si mischiava fra gli altri parmigiani, nascondendosi dietro la mole di Ercole Gualazzini e la vivacità di Luciano Armani. Ma c’era. E c’era con il suo sorriso. Se gli facevi un complimento, arrossiva, si scherniva, ti smontava.
Ancora due dettagli. Il primo: per alleggerirsi su un falsopiano prima della salita del Grappa, Casalini si alleggerì della pompa e di un tubolare, ma non voleva gettarli, così in mancanza dell’ammiraglia, li passò ad Adriano De Zan, che seguiva la gara su una moto. Il secondo: Casalini diceva che il Grappa avrebbe meritato un vincitore più prestigioso di lui. Ce ne sarebbe un terzo. Eccolo: nel 1998, 30 anni dopo la sua impresa, “il Fante” tornò in bici sul Grappa con un gruppo di amici, e in cima spiegava come fosse stato duro, ma bello, bellissimo, forse addirittura più bello di quando arrivò da solo. Perché stavolta non avrebbe dovuto chiedere scusa al Cannibale.