Dai miei appunti di viaggio.
Il primo che ritrovo: da anni non vedevo un Poggio così moscio. Dopo tutto, una Sanremo così moscia. Stavolta bravissimi quelli della fuga d'apertura, dieci quasi tutti italiani, un mazzo tanto fino a 18 dall'arrivo, per un totale di 270 chilometri là davanti: dici niente, buttala via, una vetrina così. Però questo dice anche che dietro, tra attendismi e strategie, calcoli e amnesie, non si sono dannati. Lo so, è una Sanremo superveloce, la più veloce di sempre come media, ma siccome in bicicletta ci vado anch'io da una quarantina d'anni, oltre tutto da ciclopancetta, so bene quanto incida il vento, quando ce l'hai in faccia (da augurare al peggior nemico), ma anche quando ti spinge da dietro, come in questo caso. Per cui: Sanremo veloce, questo sì, ma bella no. Proprio no. L'attesissima Cipressa zero. E persino gli ultimi dieci minuti, che solitamente fanno l'elettrochoc al mondo intero, stavolta sfumano via in modo prevedibile, fiacco, scontato. L'attacco in vetta di Pogacar, negli ultimi 900 metri, la risposta di Van Der Poel, poi proprio loro che sono lì per il prevedibilissimo testa a testa finale si fanno riprendere dall'intero branco. Resta la volata, sì, ma anche quella una bella volata delle tante, vinta dal miglior velocista del momento, questo Philipsen che ha tutta l'aria di essere solo all'inizio di una spettacolare carriera. Totale: non una Sanremo indimenticabile. Direi dimenticabilissima. Senza il guizzo, l'attimo, il lampo che tutto illumina e tutto consacra. Mettiamola così: una Sanremo tra le tante, una Sanremo per niente unica. Una Sanremo che non riguarderò domani con calma.
Risalendo come un salmone tra gli appunti di viaggio.
Seconda cosa: fino a un attimo prima dell'arrivo, diciamo prima della volata, mi segno di tributare un pubblico encomio agli italiani. Non devo dimenticarlo. Non va dimenticato. Oltre a quelli della lunga fuga (Davide Bais su tutti, ultimo a mollare), dico subito Bettiol (quinto alla fine) e subito dopo Sobrero, autore di una coraggiosa sparata nel finalissimo, sventata soltanto da un Van Der Poel in versione gregario per Philipsen. Se ci aggiungiamo anche Ganna, presente tra i best fino alle grane tecniche, direi che è una Sanremo di orgoglio, di dignità, di personalità. Certo non da periferia terzomondista come sembriamo ultimamente. Il digiuno perdura, sta diventando eterno, ma se non altro siamo seduti a tavola.
Altro appunto: Sanremo poco affollata, poco seguita, poco vissuta. Il lungo lungo lungomare dell'Aurelia non attira la folla. Neppure la giornata primaverile smuove gli indigeni, i pensionati, le mammine coi passeggini che svernano in Riviera. Mi diranno che un po' di gente c'era, ci si capisce, non intendo deserto assoluto, ma aggiungerò che qualche Sanremo l'ho già fatta, diciamo un 35, e qualche paragone mi sento di farlo. Di chi la colpa? Non saprei. Il direttore Stagi, con cui viaggio, me ne fa presente una molto attendibile: mentre del Festival parlano per un anno intero, smarronando a destra e a sinistra, per questa corsa monumento non hanno affisso un manifestino neppure da ciclostile, nemmeno di quelli incollati ai lampioni con lo scotch. E allora: se non ci credono loro, i liguri, che un sabato di marzo potrebbero movimentarlo con questo avvenimento, sfruttandolo tipo festa popolare, preferendo far trovare la carovana sulle strade all'improvviso, quasi caduta da Marte, come possiamo pretendere che la gente poi si accalchi sui marciapiedi ad aspettare i corridori. La gente manco sa che c'è la Sanremo: posso testimoniarlo, quando ti fermi lungo il percorso c'è sempre qualcuno – commerciante, sciureta, nonno al tavolino – che chiede cosa sta succedendo, cos'è questo movimento? La Sanremo? Ma è oggi la Sanremo?
Appunti finali, ritrovati tra gli altri. Rivedo questo: la Pavia-Sanremo cancella di fatto Milano dalle cartine geografiche del ciclismo. Stavolta come al Giro, che ormai finisce a Roma. Strana metropoli, Milano: per 365 giorni all'anno fantastica di città green, di mobilità sostenibile, di bicicletta ecologica e poesia cantando, ma non appena si presenta l'occasione di promuovere nella pratica e nella realtà questa narrazione, con i campioni del settore a sfilare per strada, la politica si gira dall'altra parte e la popolazione si secca. Il ciclismo come fastidio, come seccatura, come inutile spesa. E allora sai che ti dico? Sbianchettare Milano dalla geografia e dalla storia ciclistica, non rimane che questo. Tanto, ormai la chiamano tutti “Sanremo”. E comunque la Pavia-Sanremo non è un declassamento: a declassarsi è Milano, da città green a città grigia. Nell'indifferenza generale.
Ultimissimo appunto: sul traguardo noto che non esiste più la famosa cabina dei telecronisti. Immagino che il Tir con i tubolari delle impalcature si sia perso per strada, che abbia sbagliato santo, finendo a San Benedetto del Tronto. Non è così. L'hanno piazzato in un'altra piazza della città, dove il traguardo non lo vedono manco col binocolo. Pancani e soci raccontano l'arrivo guardando il video, come fossero a Roma o a Dubai. Come il tifoso seduto sul divano di casa, a Bassano e a Cefalù. Non so se sia l'evoluzione inevitabile, ma mette malinconia. L'anno prossimo direttamente dall'Ariston, così non devono neanche smontare le apparecchiature dopo il Festival. E se per caso salta la linea, la volata se la fanno raccontare chiedendo ai passanti, dal balcone di Amadeus.