Era una bici da corsa, ma vecchia, scassata, con i cerchioni in legno. Ma a lui sembrò bellissima. “Mi entrò nel cervello”. Era la bici di un sindacalista, che annunciava lo sciopero generale per manifestare contro l’attentato a Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista.
A Franco Lotti quella bici da corsa, vecchia e scassata, con i cerchioni in legno, entrò nel cervello, ma anche nel cuore, nella pelle, nelle gambe, insomma nella vita. Prima come un gioco (“Io sono Bartali, tu Coppi, tu Bobet… Giocavamo così, non c’era altro”), poi come una compagna (“C’era un tale che aveva corso”, “Dammi 13mila lire e te la do”, “Mi dai la bici e tu intanto vai dai mio padre e te la fai pagare”…), quindi come uno sport (“Primo anno, il 1954, 20 corse, nessuna vittoria ma due secondi posti, e un solo ritiro”).
Bruno Confortini ha scritto “Franco Lotti – le corse e la vita” (Geo Edizioni, 96 pagine, 13 euro), uno di quei libri che sanno di strada e pista, di fughe e inseguimenti, di opportunità colte e occasioni mancate, di vittorie conquistate per distacco e sfiorate in volata, di ordini di arrivo e ordini di scuderia, di corse in bianco e nero e avventure a colori, anzi, di tutti i colori. Il titolo italiano Uisp individuale nel 1955 guadagnato con un paio di scarpini prestati da Gastone Nencini (“Te li pago quando torno”), il titolo italiano Uisp a cronometro a squadre nel 1956 (in quattro, anche se “due, per un motivo o per l’altro, non andavano”), la spregiudicata intervista alla “Nazione” nel 1957 (al giornalista che gli chiede di una dura salita, risponde “roba da ridere, misi il 50x14 e feci il vuoto alle mie spalle”), il titolo toscano nell’inseguimento individuale alle Cascine nel 1958, i complimenti del c.t. Giovanni Proietti.
Toscano di Cintoia, vicino a Pontassieve, di famiglia contadina fra campi e allevamenti, Lotti ha vissuto il grande ciclismo prima da dilettante, nel 1959, con la Brooklin di Empoli (con Venturelli e Trapè, Chiodini e Paolinelli…), con l’apparizione di Fausto Coppi (due lettere, settembre e novembre 1959, un incontro, a Pescia, e una promessa evaporata con la morte improvvisa e inaspettata del Campionissimo), con l’illusione dei Giochi di Roma del 1960 (il nuovo c.t. Elio Rimedio “mi fece fare il ‘ciuco’ per allenare chi già sapeva sarebbe entrato nella squadra olimpica e poi in quella mondiale”), i duelli contro Roberto Nencioli (come nel GP Mignini a Perugia, seconda prova del campionato italiano, volata a quattro, “i giornali dell’epoca scrissero di un Nencioli decisamente mutilato, grondante sangue”, ma per Lotti “la ferita non gli impedì di fare la volata, non si perde di mezza ruota se si sta veramente male, ci si stacca prima!”, e terzo fu Gimondi).
Nel 1964, finalmente, professionista nella Cynar: il ritiro invernale a Diano Marina (“Arrivammo da Milano in pullman, tutti noi tranne Alfredo Binda, general manager, che si fece portare da un taxi: aveva paura a scendere il Turchino col pullman!”), ogni corsa un’avventura (St. Vincent-Meda, prima prova del Trofeo Cougnet: “Mi strinsero due della Legnano, Marcoli e Durante, rimasi col manubrio per aria, non caddi, ma dietro di me ci fu una caduta di qualche decina di corridori… e pensai dentro di me che avevo vinto lo stesso, visto come l’avevo scampata!”), ogni corsa una sorpresa (Giro della Toscana, “come già al Giro del Piemonte, Gastone Nencini si fermò mentre stavamo inseguendo e anche stavolta c’era Maria Pia ad aspettarlo”), ogni corsa un ricordo (Giro del Lussemburgo, undicesimo assoluto, “il prelibato champagne offerto ai corridori dal Console italiano”, “non ho più bevuto niente di simile!”). Finché, tra una proposta di Waldemaro Bartolozzi per la Springoil e quella di Vasco Baroni - centomila lire sicure al mese – come commerciante all’ingrosso di generi alimentari, Lotti pensò alla famiglia e abbandonò il ciclismo.
Non è vero che lo abbandonò: passione, forse amore, amore eterno, infatti ancora adesso, anche con questo libro. Il titolo lo conferma: “Franco Lotti – le corse e la vita”.
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