Non è assolutamente sorpreso del successo della docuserie di Netflix su «Il caso Alex Schwazer». Ne era quasi certo, che l'opinione pubblica l'avrebbe accolto con interesse. «È un racconto leale: senza menzogne», ci dice Sandro Donati, 76 anni, romano, una vita da allenatore e al servizio dello sport pulito, che non ha mai creduto nella seconda positività al testosterone del fuoriclasse bolzanino e si è sempre schierato dalla sua parte senza mai abbandonarlo.
Da questo docufilm ci sembra che venga fuori prorompente l'ingiustizia nei confronti di un atleta rimasto invischiato in qualcosa di più grande di lui.
«È così. Con questo documentario ci si è rivolti ad un pubblico più vasto, privo di condizionamenti che si è reso conto della verità. È un docufilm nel quale si può capire compiutamente quanto le istituzioni sportive siano corrotte».
Quindi?
«È giunto il momento di alzare il velo dell'ipocrisia, di provare a fermare questo sistema, altrimenti sono dolori. È da tempo che siamo in possesso di tutti gli elementi necessari per poter dire che queste istituzioni internazionali, comprese le Federazioni mondiali, non son altro che centri di potere che servono a loro stessi. Poi posso aggiungere una cosa? ...».
Sono qui per questo.
«Oggi è ancora più chiaro di come il ciclismo sia servito da strumento per additare qualcuno ad esempio negativo, allo scopo di evidenziare per riflesso se stessi come esempio positivo. Esaminando il database che ho trovato nei file sequestrati ad un medico coinvolto nell'indagine di Bolzano, mi sono reso conto di quello che ha fatto la Federazione Internazionale di atletica leggera per undici/dodici anni: rilevava anomalie, le annotava su questo database e lì rimanevano. Fino a quando, ad un certo punto, tutto questo materiale finiva in una valigetta e alcuni dirigenti andavano in giro per il mondo a ricattare gli atleti. Io penso una cosa».
Cosa?
«Questo antidoping che, nelle sue enunciazioni è severo ed inflessibile e sembra gestito dal Padre Eterno, nella realtà è manifestamente una pura ipocrisia. Guardo le statistiche e noto senza timori di smentita che nessuno è in grado di mettere in moto un incisivo controllo antidoping in un mondo di professionisti dall'elevato valore economico dal grande tennista al grande calciatore -: evidentemente chi gestisce quel business, attua processi di protezione molto convincenti».
Un sistema di immagine ricattatorio.
«Dobbiamo tornare all'idea originaria, più modesta e umana della prevenzione del rischio per la salute. Questo è il punto. Non è più pensabile agire sull'emoglobina o i valori dell'ematocrito in maniera generalizzata, ma si deve arrivare a valutazioni e limiti individuali: tu puoi arrivare fin qui».
E poi le squalifiche...
«Pesantissime. A me non piacciono neanche un po'. Lo strumento dell'antidoping deve essere usato per combattere la diffusione del fenomeno, non per gioire di una squalifica a fronte di numerosi atleti dopati che non vengono colti. A mio parere bisogna lavorare sugli indici di prevenzione dei rischi per la salute. Sei in una situazione anomala? Ti fermi fin quando quel parametro non viene normalizzato, senza scomuniche e gogne mediatiche. Basta con questi atteggiamenti ipocriti per cui un atleta squalificato non può mettere piede in un campo sportivo, ma chi ci dà il diritto? Ma se siamo pieni di dopati e diversi di loro entrano tranquillamente ogni giorno in quello stesso campo. Non lo dico io, l'ha detto il vice-direttore della Wada Rob Kohler, dopo diciotto anni di onorato servizio. Ha indicato i dopati nel 30% circa del totale degli atleti di alto livello, altro che il loro 0,5% per sciacquarsi le coscienze».
per leggere tutta l'intervista pubblicata questa mattina su Il Giornale