E alla fine, anche al “Processo” arrivò un conduttore. Uno che senza diveggiare e fare tanto la primadonna, lasciando a casa l'egocentrismo e la vanità, semplicemente cerca di usare la testa e di spadellare argomenti. Parlo di Alessandro Fabretti, migliore in campo nella tappa di San Salvo, comunque degno del dieci e lode del direttore Stagi.
Perchè sono così lecchino, così spudoratamente lumacone? Non ho assunto droghe pesanti e tanto meno ho sbagliato dosaggi di strani psicofarmaci: semplicemente, mi piace cercare liberamente un po' di verità. Quella che mi sembra più verosimile, quanto meno, l'unica possibile alle nostre misere facoltà umane.
Monumento a Fabretti, sperando che non smentisca tutti già da domani, perchè in una giornata di noia mortale non esita ad affrontare la questione.
Prima, per chiarire, chiedo un attimo per allestire il quadro.
Mare azzurro sempre a sinistra. Il sole ancora intimidito, temperatura mite, brezza robusta. In fuga i fachiri che non c'entrano con i grandi giochi, chilometri e chilometri di monotona centrifuga, il gruppo che li tiene ben dentro il radar per non sprecare poi troppa fatica verso il ricongiungimento. Paesaggio all'italiana: tanta bellezza in natura, parecchio sfasciume lasciato a perenne memoria dal brutale boom degli anni Sessanta. Lungo i marciapiedi, una folla strappata alla prima spiaggia di stagione. Davanti al video, abbiocco sempre in agguato. Telecronisti che raschiano il fondo, manca solo che raccontino quel giorno della prima comunione e l'ultima sui carabinieri.
Improvvisamente, tensione a mille e adrenalina a duemila. Dieci minuti, non di più. Anche meno. Prima la caduta da capelli dritti, grazie al cielo senza conseguenze fisiche per nessuno, a parte il solito mezzo metro quadro di cute lasciata sull'asfalto. Le conseguenze sono solo tecniche, agonistiche, in fondo spettacolari: saltano tutti gli schemi e tutte le marcature, il gruppo si spezza come friabile grissino, si va al finale senza tirare il fiato.
Non c'è Poggio, ma è una piccola Milano-Sanremo. Stesso schema, stessa trama, però anche gli stessi dilemmi di sempre: ne vale la pena? Se in tanti se li pongono per la grande Milano-Sanremo, una gemma di livello mondiale che noi non dovremmo neppure sfiorare, se non per lucidarla ogni anno di più, figuriamoci per le tappe pianeggianti del Giro.
Torno a Fabretti, che senza insabbiare niente in nome dei soliti dogmi ruffiani (bisogna solo parlare bene del ciclismo, bisogna tenere su lo spettacolo, bisogna scansare le polemiche scabrose), insomma senza imitare la sua predecessora va dritto al punto: signori, ha senso tenere in piedi tappe così lunghe per un arrivo allo sprint? Altri sport – ricorda giustamente – le hanno studiate tutte per debellare la noia, cita tennis e pallavolo, perchè non pensarci anche noi, meno chilometri e meno tempi morti per non tramortire?
E' qui che mi alzo in piedi e applaudo il bravo giornalista. Senza problemi, un vero piacere dire qualcosa di buono anche a carico della Rai. Bravo Fabretti, grazie Fabretti, a nome dei telespettatori contribuenti.
Resta solo un enorme buco nero: lo stimolo del conduttore non trova tempo e interlocutori adeguati per discutere la questione. Io, sul traguardo, ho vicino Cristian Salvato, il sindacalista dei corridori italiani. Da parte sua, nessun dubbio: “Tappe così lunghe e così monotone uccidono lo spettacolo e tramortiscono il pubblico. Non fanno bene al Giro e al ciclismo intero. La soluzione c'è ed è semplice: 120 chilometri, non di più, e volata”.
Il dibattito resta sospeso. Purtroppo. Io provo a rilanciarlo. Sarebbe interessante affrontarlo tutti quanti assieme, senza buttarla in caciara e in lotta tra bande, per tirare una conclusione intelligente. Ma su questo sinceramente nutro forti dubbi.