L’Elettrotreno di Forlì è arrivato alla stazione. Fine del percorso. Signori, si scende.
Ercole Baldini è morto questo pomeriggio. A Villanova di Forlì. A casa. Nel suo letto. Un paio di settimane fa era stato ricoverato in ospedale, e da allora ha cominciato a spegnersi. Il suo motore ferroviario, che aveva già cominciato a perdere colpi, si è scarburato, ingolfato e infine fermato. Gli ultimi chilometri non sono stati all’altezza di quel meraviglioso viaggio, altro che Orient Express, che è stata la sua vita. Il 26 gennaio avrebbe compiuto 90 anni.
Lui, campione anche in modestia, si definiva una meteora. E’ stato, invece, una superstella. Avrebbero dovuto regalare il suo nome a un asteroide, come è stato fatto con Margherita Hack, magari un asteroide caratterizzato da un’orbita circolare, rotonda, e da una luce potente, abbagliante, così com’era la sua pedalata stantuffante, cilindrica, nelle cronometro, la specialità in cui primeggiava, rivale di Jacques Anquetil e antenato di Filippo Ganna. Lì, così, con il tempo e contro il tempo, si era guadagnato il paragone con i treni, prima Elettrotreno, poi Diretto, Direttissimo, Espresso, Rapido, oggi sarebbe stato definito Pendolino, un esemplare e un esempio ad alta velocità.
In soli tre anni, fra il 1956 e il 1958 – in questo aveva ragione lui – Baldini illuminò il ciclismo, sublimando l’azzurro (quello dell’Italia) in olimpico (Melbourne 1956), e il verde oliva (quello della Legnano) in bianco-rosso-verde (campione italiano 1957 e 1958), rosa (Giro d’Italia 1958) e iridato (campione del mondo 1958). Avrebbe vinto ancora (anche una tappa al Tour de France 1959), avrebbe vinto soprattutto nella vita. Una prodezza riservata a pochi, pochissimi. Perché era generoso, riconoscente, buono. Se il nome Ercole rendeva l’idea della sua grandezza, il cognome Baldini restava l’unico diminutivo di una esistenza (e anche di una taglia: quanto gli piaceva mangiare, non si è mai calcolato se avesse più fame o golosità) extralarge.
Ercole Baldini (l’istinto costringerebbe a scrivere nome e cognome così come pronunciati, senza respiro, senza sosta: Ercolebaldini) si era innamorato di Fausto Coppi strada facendo in allenamento e poi sposandolo nel Baracchi 1957, aveva condiviso con Fiorenzo Magni, da responsabile, le vicissitudini della Lega Ciclismo e, da sostenitore, le sorti del Museo del Ghisallo, aveva partecipato anche alla costruzione delle fondamenta della Mapei nel ciclismo. Da Villanova, la sua Betlemme e il suo Golgota, andava e tornava in macchina divorando chilometri a velocità superiori al normale (così come faceva in bici) per presenziare, omaggiare, ingigantire una manifestazione, un appuntamento, un evento. Quando si muoveva, muoveva anche la storia.
Senza peccare di protagonismo, di egocentrismo, di mitologia, Ercole avrebbe potuto tenere il palcoscenico con i suoi racconti. Lo faceva con semplicità, con modestia, quasi con pudore. Narrazioni esilaranti, confidenze commoventi, testimonianze storiche. Uno dei suoi pezzi forti era il dialogo con Lupo Mascheroni, il meccanico della Legnano: “Giro d’Italia 1958, tappone alpino, da Levico Terme a Bolzano, 200 chilometri con la maglia rosa e un morale di ferro, a pochi chilometri dal traguardo mi si affiancò l’ammiraglia della Legnano e Lupo Mascheroni mi urlò: ‘Sta’ attento, la pista è in terra’. Gli risposi: ‘E che cosa credevi, che fosse in cielo?’. E vinsi anche quella tappa”. Un altro: “Al mio primo Giro d’Italia, quello del 1957, nella cronometro di Forte dei Marmi, sentivo la catena cantare e andai così forte da mandare fuori tempo massimo una sessantina di corridori. La giuria, elastica, d’accordo con gli organizzatori, disperati, fu costretta ad allentare il limite, e restituì i 60 corridori alla corsa. Meno male. Mi avrebbero odiato”. Un altro ancora: “Gastone Nencini aveva una Mercedes 250 SE con le codine, io una Lancia Flavia. Si andava dal Giro del Veneto al Giro del Piemonte, e siccome la mia macchina era meno potente della sua, mi misi alla sua ruota sfruttandone la scia, finché l’acqua bollì e il motore fuse”.
Tre anni fa, con la scusa di ricordare quel vertiginoso 1958, Baldini chiamò a raccolta il popolo del ciclismo. Vennero tutti. Da Balmamion e Zilioli a Motta e Dancelli, da Pambianco e Adorni a Bugno e Moser, da Vigna e Zandegù a gregari come Piscaglia e Primavera, e tantissimi altri. Una festa. Uno spettacolo. Una dichiarazione di affetto. Una dimostrazione di gratitudine. Quella che oggi, e per sempre, chiunque trasmetterà all’Elettrotreno di Forlì. Perché esca dalla stazione e continui a viaggiare nei ricordi, nei racconti, nell’esempio.