Le spire rettili dell’Alpe d’Huez e la terrazza aeronautica di Peyragudes. Il Santuario della Madonna di Lourdes e l’Arco di trionfo di Parigi. Le pietre della Porte du Hainaut e l’obliquità della Planche des Belles Filles. Stadi senza tribune e gradinate (con l’eccezione di qualche struttura per privilegiati), senza biglietti e abbonamenti (a parte qualche pass e accredito), ma colmi di folle e sentimenti, ricchi di colori e rumori. Il ciclismo, al Tour de France, sta vivendo quotidiani elogi e altissimi inni. Uno spettacolo (meraviglioso) nello spettacolo (formidabile).
Daniele Marchesini e Stefano Pivato sono gli autori di “Tifo” (il Mulino, 268 pagine, 22 euro), un saggio sulla passione sportiva (quella che sta accendendo, da tre settimane, le strade francesi) ma in Italia (dove il Giro, si sa, è inferiore al Tour un po’ perché si disputa in maggio e non in luglio, un po’ per un sistema che – a catena – coinvolge corridori meno forti, sponsor meno potenti, platee stradali e mediali meno numerose, ma non stadi meno importanti, affascinanti, imponenti).
La parola “tifo” deriva dal greco e significa fumo, vapore, offuscamento dei sensi. Nell’Ottocento identificava una malattia contagiosa. Nel Novecento ha indicato anche la passione sportiva “a seguito del legame che è stato facile individuare tra le febbri tifoidi e le loro manifestazioni da una parte (momentanee alterazioni mentali), e la febbre sportiva che, contagiosissima, periodicamente esplode negli stadi dell’altra”. L’uso del termine comincia nel primo dopoguerra: “Nel 1923 è Giovanni Dovara che, su ‘Il Calcio’ di Genova, settimanale nato dieci anni prima, allude a quella passione sportiva “onde più o meno sono infetti in questa stagione gli appassionati del Giuoco del Calcio”.
Il ciclismo ha i suoi stadi. Quelli naturali, mobili perché possono cambiare a seconda del percorso scelto: le strade, soprattutto in montagna. E quelli speciali, immobili perché studiati e costruiti per contenere piste ad anello: i velodromi. Marchesini e Pivato, fra “i luoghi di culto”, raccontano la tappa del 23 luglio 1956, quando il Tour arrivò in Italia, a Torino, sulla pista del Comunale: “Circa 60 mila persone, come è difficile che all’epoca accada anche per il derby calcistico della Mole, tra bianconeri e granata. L’enfant du pays è Nino Defilippis, che in quel Tour ha già vinto due tappe, a Pau e Tolosa. Specialista di imprese di un giorno, vince una terza volta, mandando in visibilio il suo pubblico. Secondo Gian Paolo Ormezzano fu una volata di popolo, con il cit (ragazzino, in piemontese) sospinto verso il traguardo dall’incitamento dei tifosi”. Tutti felici e contenti tranne l’organizzatore: “Non aveva fatto stampare biglietti sufficienti per l’assalto ai botteghini” e “in un giorno è diventato ricco mentre poteva diventare ricchissimo”.
C’è molto ciclismo in “Tifo”. La commozione di Stato per Fausto Coppi (“Era nato per vincere e non poteva morirsene sconfitto. La vecchiaia non l’ha avuto”, Gianni Brera) e la memoria collettiva per Marco Pantani (fece “immediatamente scattare l’identificazione fra l’uomo della strada e il campione della bicicletta”, Gianni Mura), la seduzione del Vélodrome d’Hiver (“La luce fumosa del pomeriggio e la pista in legno dalle curve rialzate e il fruscio dei tubolari sul legno quando passavano i corridori”, Ernest Hemingway) e la folgorazione per certe montagne (“Chi sapeva dello Zoncolan, del passo del Mortirolo o del colle delle Finestre – si chiedono gli autori - prima della loro ‘scoperta’ a opera del Giro?”). Il rapporto fra pubblico e corridori, fra spettatori e campioni, fra tifosi ed eroi libera una passione sana e, allo stesso tempo, folle. “C’è il bambino che scrive a Coppi che suo padre con i soldi previsti per l’acquisto di un cappotto invernale gli ha comprato una bicicletta ‘s’intende non nuova benché discreta’. Tuttavia – prosegue il fanciullo – mancano i tubolari e ‘per cominciare a tentare la carriera, a me mi farebbero comodo anche un paio di scarpette e il mio numero è 39”.
E le scritte. “Leggenda (o realtà?) vuole che, secondo quanto ha raccontato lo scrittore Tristan Bernard, sia stato Henri de Toulouse-Lautrec che alla fine dell’Ottocento, impressionato dallo stile del velocista americano Arthur Augustus Zimmerman, decide di dipingere sull’asfalto della strada con la vernice rossa un suo ritratto stilizzato con accanto due parole: ‘Allez Zimmì’”. E forse leggendaria è anche la storia di quel “W Adorni” “dipinto su un ponte ferroviario che scavalca la città (Parma, ndr), che il diretto interessato provvederebbe a rinfrescare periodicamente per renderlo visibile a oltre cinquant’anni dal suo mondiale di Imola del 1968”. In fondo, tifoso di se stesso. E chi non lo è?
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