Non dice mai cose banali, Beppe Saronni. Non è tipo che si nasconda il, anche se ama stare nella sua “tana”. Ma se lo si va a stuzzicare, lui esce tranquillo e reagisce, soprattutto ragiona, come ha sempre fatto. È chiato che non si stupisca affatto dei magri risultati raccolti, della primavera poco profumata per i nostri colori, perché è da qualche anno che cerca in tutti i modi di richiamare le attenzioni, soprattutto le istituzioni.
Beppe Saronni ha 64 anni e resta, dopo Coppi, il campione più precoce del ciclismo italiano: deb a 19 anni e vincente, primo trionfo al Giro nel 1979 a 21 anni. E poi manager di squadre, cercatore di sponsor, scopritore di talenti come Pogacar. «Facciamo finta di niente da troppo tempo – spiega alla Gazzetta in edicola questa mattina -, e ci nascondiamo dietro alla Roubaix di Colbrelli. Il ciclismo italiano lo vedo malissimo. Guardi le corse e ti chiedi: dove sono gli italiani? Non siamo più protagonisti e soprattutto non ci sono italiani che corrono». Dov’è il nodo? Chiede Luca Gialanella. «Non ci sono più le strutture giovanili di base, abituate ad avere un mare di ragazzini che, prima di correre, giocavano. Ogni paese aveva la propria società e le proprie corse. C’era una base molto larga: non tutti diventavano campioni, però uscivano dei buoni corridori. Invece adesso non solo non ci sono i campioni, ma nemmeno il secondo, il terzo e il quarto corridore. Non ci sono più i numeri. Non c’è più niente alla base, e sarà sempre peggio».
Dal 2000, l’Italia delle classiche di primavera non andava così male: tra Milano-Sanremo, Gand-Wevelgem, Giro delle Fiandre, Parigi-Roubaix, Amstel Gold Race, Freccia Vallone e Liegi-Bastogne-Liegi, non siamo mai entrati nei primi 10, Vincenzo Albanese 11° alla Sanremo è stato il migliore. Nel 2002, per esempio, avevamo occupato i primi cinque posti della Liegi: Bettini, Garzelli, Basso, Celestino e Codol. Quindi,la domanda dalle cento pistole: come uscirne? «La mancanza dei risultati è la punta dell’iceberg. Se non si torna a investire sulla base, sul reclutamento e sulle strutture giovanili, l’Italia resterà appesa a quei pochi talenti naturali come Ganna che vengono fuori casualmente. È la matematica. Dai miei tempi il ciclismo è cambiato. L’offerta degli sport si è moltiplicata, la strada è pericolosa, i genitori hanno paura, i costi sono cresciuti, così come i sacrifici, le fatiche, le rinunce: il ciclismo non è uno sport moderno. In Italia non mancano le risorse e i soldi, ma progetti veri, idee e persone credibili per portarli avanti. La prima cosa da fare? Un’Academy nazionale per raggruppare i migliori giovani, farli correre, crescere e studiare: non dobbiamo perdere i pochi che ci sono».