Subdola Sanremo. Ambigua Sanremo. Ingannevole Sanremo. Ogni anno riesce a farci cadere sempre nello stesso gioco: tutta una settimana a immaginare scenari, a disegnare strategie, a scommettere sulle soluzioni più fantasiose, stavolta una settimana ancora più ingarbugliata per questo Pogacar così forte da indurci in tentazione, con tanto di frase da Sibilla, “vi troverete una soluzione a sorpresa”, e bravo il Magrini a ironizzare in diretta dicendo “vorrà dire che attaccherà sul Berta”, perchè le altre le avevamo già inventate tutte, insomma la solita vigilia come se la Sanremo fosse una cosa normale, inquadrabile, definibile, pronosticabile, ed ecco invece alla fine la solita Sanremo infida e ruffiana che smonta tutte le alternative possibili, andando dritta al suo solito schema, suonando il suo solito spartito, sfoderando il suo solito colpo di fulmine, unico e irresistibile. E cioè: tutti quanti a suonarsela e a cantarsela per 280 chilometri, quindi appuntamento sul Poggio per regolare i conti a mani nude, uno contro uno, tutti contro tutti.
La solita, scontata, ortodossa Milano-Sanremo. Altro che attacco da lontano, altro che Cipressa, altro che soluzione a sorpresa. Poggio è, Poggio rimane. Questa è la Sanremo dell'era moderna: il campionato del mondo di alta velocità, il campionato del mondo di scaltrezza, di coraggio, di incoscienza.
Stavolta, rispetto alle ultime, il condensato-concentrato di emozione, tutto e subito, tutto in dieci minuti lunghi come un'agonia, se possibile riesce ad essere ancora più elettrico e choccante. In salita il preannunciato Pogacar fa quanto deve, rifilando tre scatti feroci sul muso degli avversari, ma in questo caso, trattandosi di Poggio e non di montagna, gli specialisti del ramo – cioè Van Aert, cioè Van Der Poel – rispondono come si deve e rinviano la questione agli ultimissimi metri. Meglio: così credono. Perchè proprio dopo lo scollinamento entra in scena il kamikaze Mohoric e non ce n'è più per nessuno. Ancora una volta uno sloveno, ancora e sempre uno sloveno, come se ne sentissimo la mancanza, nemmeno il ciclismo mondiale fosse ormai un eterno campionato nazionale di Slovenia, se non è Pogacar è Roglic, se non è Roglic è Mohoric. Daje e ridaje, dicono a Lubjana.
Che Mohoric avesse doti da finisseur e coraggio da stunt-man ormai lo sapevano anche i bambini della scuola materna. Ma temendo che qualcuno magari non conoscesse la sua fama, il gigante sceglie proprio la Sanremo per un rapido compendio delle sue doti migliori: prima è baciato dal talento, dalla fortuna e forsanche da un santo in paradiso quando rischia di spatasciarsi in una curva carogna, riuscendo solo Dio sa come a uscire dal canalino laterale in cui s'era ficcato, quindi innesta il turbo del suo proverbiale finale e per quelli dietro, i migliori, i più forti, i mejo talenti della combriccola, non esiste più la possibilità di riprenderlo.
Che Sanremo è, allora, alla fine? E' la Sanremo del copyright, del quarto d'ora di sconvolgente, spettacolare, inimitabile pppaura, stavolta domata da un acrobata, certo, ma un acrobata (ascendente mountain-bike) dalla potenza inaudita, perchè prova tu a resistere quando dietro ti inseguono Pogacar, Van Aert e Van Der Poel, anche se magari non proprio in perfetto accordo, anche se magari non proprio in armonica collaborazione: meglio avere alle calcagna tre pitbull in una notte di luna piena, che quei tre tutti assieme. Eppure.
Poi dice che la Sanremo va cambiata, appesantita, modificata. Una Sanremo Ogm. Se Mohoric ha un merito, come l'anno scorso Stuyven, è proprio questo: ancora una volta dimostra che della Sanremo Ogm non c'è proprio bisogno. Va benissimo così com'è. Com'è nata in natura. Per farla bellissima non serve un altro percorso: basta chi la percorre in una certa maniera. Ma continuate a raccontare in giro che è una corsa per velocisti, continuate.