Gli raccomandarono: nascondersi, mimetizzarsi. Gli ordinarono: aspettare, difendersi. Lui disobbedì: pronti-via, vinse la prima tappa e conquistò la maglia gialla.
Lui era Felice Gimondi. Successe nel 1964, al Tour de l’Avenir, il Tour de France riservato ai dilettanti. Due settimane più tardi, a Parigi, al Parco dei Principi, celebrò il primo grande trionfo di una carriera da disobbediente protagonista, a illuminarla tre Giri d’Italia, un Tour de France e una Vuelta di Spagna, un Mondiale e un Tricolore, le classiche, perfino le Sei Giorni.
Amedeo Santicchia racconta Gimondi in uno dei sette episodi di “E’ successo”, storie di sportivi che hanno realizzato l’impossibile (Cento Autori, 144 pagine, 16 euro), a cura del Collettivo Banfield: Luca Pelosi scrive di basket (“1983-1984, il biennio breve del Bancoroma”), Max Civili di tennis (“Evonne Goolagong, l’aborigena che si prese il tennis”), Diego Marottini di atletica (“John Akii-Bua, una vita da straniero”), Andrea Bacci di pugilato (“Carlos Monzon, pastorale argentina”), Stefano Sassi e Giuseppe Pastore di calcio (“Verona 1985, il titolo degli altri” e “Ranieri, Lineker e la redenzione di Leicester”). “In qualsiasi epoca – scrive Alberto Zaccheroni nella prefazione – ogni disciplina sportiva impone rinunce, sofferenze, spesso solitudine. Si richiede la capacità di confrontarsi con se stessi e con gli altri e trarre il massimo possibile anche da situazioni sfavorevoli”. E “se in quei casi non è successo, il più delle volte non era colpa di chi non ce l’ha fatta”.
Ma Gimondi ce l’ha fatta. Santicchia ricorda il Tour de l’Avenir 1964, ma anche il Giro d’Italia 1965 e il Tour de France 1965. Quel Giro lo cominciò da neoprofessionista e lo concluse al terzo posto. Quel Tour lo affrontò da luogotenente di Vittorio Adorni, che aveva appena vinto il Giro, e lo terminò da vincitore. In un solo anno, quel ragazzotto bergamasco della Val Brembana era diventato l’erede di Fausto Coppi: per il talento e la classe, per la resistenza e la regolarità, per la tenacia e l’orgoglio, anche per quell’egoismo indispensabile per primeggiare.
Santicchia sostiene che Gimondi, al Tour 1965, abbia partecipato non per sostituire all’ultimo momento il gregario Bruno Fantinato, ma per un’intuizione del direttore sportivo Luciano Pezzi. “In fin dei conti – Pezzi dice a Gimondi nella ricostruzione di Santicchia – ti fai un po’ di esperienza, dai una mano ad Adorni e conosci qualche corridore nella pancia del gruppo. Tutto fieno in cascina che ti ritroverai al momento opportuno”. Il primo momento opportuno è nella tappa del Ventoux, quando Felice salvò la maglia gialla, il secondo nella cronometro di Mont le Revard, quando vinse e incrementò il vantaggio su Raymond Poulidor, l’eterno secondo dietro a Jacques Anquetil e, stavolta, anche a quel campione che i francesi avrebbero imparato a chiamare Gimondì.
Sono passati quasi tre anni da quando Gimondi ha svoltato, per sempre, l’angolo. Chiedetelo anche a Eddy Merckx: come noi, come tutti, pure il Cannibale confesserà di sentirsi più solo.
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