Era figlio della miseria: “Andò a lavorare non appena ebbe l’età per farlo, ma forse anche prima. Con un bastone di legno, alla stregua di un direttore d’orchestra, pascolava le pecore di papà Gaetano”, “nella mano sinistra reggeva un sacco di juta, mentre con la destra estraeva semi da spargere nei campi”, “con la schiena ricurva e la camicia sbottonata fino al petto, spaccava la legna”.
Poi incontrò una bicicletta: “Aveva quattordici anni quando iniziò a lavorare al forno di Michetti di piazza Cavour ad Avezzano”, “si occupava di consegnare il pane ai clienti, a bordo di una bici con il cestino di ferro agganciato al manubrio”, “la bicicletta che aveva in casa, sgangherata e arrugginita”, “era del padre, fornitagli dall’allora Ente Fucino”.
E la bicicletta gli cambiò la vita: “Ogni occasione era buona per arrivare in cima, tentando di migliorare le proprie prestazioni””, “le gambe erano dinamite pronta a esplodere e i polmoni avevano una riserva d’aria straordinaria”, “in sella alla sua bicicletta, il garzone diventava una furia”, “in cuor suo si faceva largo l’ambizione di diventare un ciclista”, “poteva essere soprattutto una via di fuga dalla miseria”.
Fu così che divenne un lupo (“Devo essere lupo perché ho fame, la mia famiglia ha sempre avuto fame. Ogni vittoria è una rapina”), un rapinatore (“Io vado alle corse come un rapinatore entra in una banca. Ogni vittoria significa una cambiale in meno che mia madre non deve più pagare”), un guerriero (“Era in guerra con la vita, perché da essa si sentiva derubato”). Fu così che divenne un corridore. E fu così che divenne “Vito Taccone – il Camoscio d’Abruzzo”, come nel titolo e nelle 160 pagine di Federico Falcone (Radici edizioni, 15 euro).
Vita, morte e miracoli. Tre vite, una morte e memorabili miracoli. La prima vita da bambino, amputata dalla morte del padre, un episodio (un assassinio?) mai risolto, la seconda da corridore (dai sedici ai trent’anni), la terza da imprenditore (ristorante, bar, proprietario di un liquorificio, poi di un’azienda di abbigliamento sportivo). La morte, un infarto, da solo, di notte, nel proprio letto. E i miracoli, otto tappe e una maglia rosa al Giro d’Italia, un Giro di Lombardia, un Giro del Piemonte, un Giro di Toscana, tappe al Giro di Romandia e di Svizzera. E il primo miracolo, nella seconda corsa disputata, a L’Aquila: “La corsa – scrisse il giovane cronista Bruno Vespa – è stata vinta dal dinamico Taccone, basso e tarchiato di statura, appena visibile sulla bicicletta”.
Lo avrebbero visto tutti, su e giù dalla bicicletta, perché Taccone era incandescente per la voglia e fluorescente per la fame, brillava di forza e splendeva di energia, si accendeva con uno scatto e s’incendiava con una polemica. In corsa era capace di tutto: aggiudicarsi quattro tappe consecutive al Giro del 1963, ma anche gettare la bici a terra e prendersi a cazzotti con lo spagnolo Fernando Manzaneque o con l’emiliano Nunzio Pellicciari, conquistare per la prima volta il Muro di Sormano al Lombardia del 1961, ma anche non sopportare e non rispettare ruolo e compiti da gregario, fosse stato anche per campioni come Felice Gimondi o Italo Zilioli. Perché era fatto così: io, io, io. La gente, soprattutto dall’Abruzzo in giù, se ne appropriò. Sergio Zavoli, al “Processo alla Tappa”, lo assoldò. Alcuni compagni se ne innamorarono, altri invece non lo tolleravano.
Falcone ha scavato e ritrovato il Taccone bambino, corridore e imprenditore, cercando amici, parenti, giornalisti, frugando in giornali, archivi, memorie, recuperando curiosità, episodi, storie, resuscitando tornanti, volate, podi. “Indimenticabile lo striscione a Roccaraso che, in perfetto dialetto pescarese, recitava: ‘Tacco’, strascina Anchetil pe li capill’ (Taccone, trascina Anquetil per i capelli, cioè fagli vedere chi sei, ndr)”. “Gli amici di una vita organizzarono un aperitivo di bentornato e, tra un bicchiere e un altro, gli porsero un pacco. Era un regalo. Lo scartò e vide un televisore. Non ne aveva mai posseduto uno”. “Per dimostrare al Cannibale (Eddy Merckx, ndr) di potergli stare a ruota, a un certo punto della corsa lo affiancò e iniziò a pedalare con una gamba sola, fissandolo dritto negli occhi con ghigno cagnesco”. “Adorni tentò più volte la fuga, sempre ripreso da Vito, che a un certo punto lo guardò e disse: ‘Vitto’, solo se svengo mi stacchi’”.
Irascibile, imprevedibile, intrattabile, eppure Taccone aveva un cuore grande così. Falcone ha salvato un altro miracolo di Taccone nei ricordi di Primo Franchini, suo gregario, caduto in gara e dato per morto da Adriano De Zan: “Mi avevano addirittura coperto con un telo. Intorno a me vi erano il medico, i dottori della Croce Rossa e le ammiraglie scoperte. Ma anche la morte non aveva fatto i conti con Vito, che si fermò e venne da me. Ma quello non è morto!, esclama. Mi prese e mi portò dentro l’ammiraglia, avevo il volto tumefatto e coperto di sangue. Aprii gli occhi, lo guardai e biascicai parole e casaccio perché ero ancora sotto shock. Poi scoppiai a piangere”. Risorto.