Gianni Moscon è sereno, sorridente, emozionato. Ha trovato un top team che gli dà fiducia e carta bianca. Lo ha scelto e gli darà i gradi di capitano per le classiche per cui è nato. Può parlare italiano, farsi vedere e apprezzare per quello che è, viene accolto in un clima decisamente più familiare di quello performante ma “senza cuore” della formazione in cui ha militato finora. Il ventisettenne trentino il cuore ce lo ha sempre messo e, anche per quello, a volte è stato criticato. Troppo istintivo, sanguigno, impulsivo. Il cuore sui pedali l’ha spremuto talmente tanto che ha dovuto sottoporsi a visite approfondite per ripartire in maglia Astana Qazaqstan e non fermarsi più per colpa della tachicardia che lo ha limitato nel finale di stagione con la Ineos Grenadiers. Ora che si è rimesso in sesto, scalpita. Non vede l’ora di allenarsi, indossare la nuova divisa, ripagare chi gli ha dato fiducia con tutto il cuore che ha.
Gianni, prima di tutto come stai?
«Bene, per fortuna è tutto sotto controllo. Ho rilevato frequenze cardiache esageratamente alte in due occasioni in gara, alla Coppa Sabatini per pochi secondi, e al Campionato del Mondo, per un minuto scarso. Mi sono sottoposto a tutti i test possibili (una visita cardiologica, l’ecocardio, il test da sforzo, l’holter ecg sulle 24 ore) e a fine ottobre all’ospedale universitario Torrette Lancisi di Ancona la visita approfondita a cui mi ha sottoposto il professor Antonio Dello Russo, affiancato dal dottor Roberto Corsetti, ha escluso la presenza di patologie che richiedono un intervento, nemmeno la paventata ablazione alla quale già pensavo. I medici mi hanno impiantato sotto la clavicola sinistra un loop recorder cardiaco, vale a dire un registratore continuo dell’attività cardiaca, che consentirà di monitorare eventuali nuovi episodi di tachicardia che dovessero ripresentarsi e quindi di fornire nuovi dati ai sanitari. Non essendoci in ballo rischi importanti avrei potuto continuare senza preoccuparmene troppo, ma ho preferito approfondire la questione in questo periodo, che è l’ideale per risolvere il problema tra una stagione e l’altra, e per essere tutti più sereni».
Il tuo è uno dei tanti casi di problematiche cardiache emerse nel ciclismo negli ultimi tempi, pensiamo a Diego Ulissi ed Elia Viviani solo per restare in Italia. Lo sport ad alto livello sta diventando troppo stressante?
«Non lo so. Quando si riceve una “tirata di collo” si usa dire “ho perso qualche anno di vita”, forse non è solo una battuta ma è la verità (ride, ndr). Scherzi a parte, si tratta di episodi differenti e frequenti nella popolazione, che un atleta del mio livello avverte mentre una persona qualunque fa più fatica a rilevare. Uno sportivo professionista conosce alla perfezione il suo corpo, sente anche se il singolo battito è sbagliato perché lavora ogni giorno con il suo fisico e ha anche gli strumenti per rilevare eventuali anomalie. Con il cardiofrequenzimetro che registra tutto, è facile dopo la corsa andare a rivedere il momento specifico e capire cosa è successo. Una persona comune innanzitutto non affronta sforzi così intensi quindi non raggiunge frequenze cardiache così elevate e, per di più, non ha i mezzi per provare quello che comunemente è definito batticuore. Indossasse il cardio come me quando lavoro avrebbe riscontrato il profilo a cassetta dell’andamento dei battiti tipico di questo tipo di problemi in cui si ha un aumento sconsiderato costantemente a livello alto e poi una discesa verso valori normali. I casi tra gli sportivi credo siano più frequenti semplicemente perché è più facile individuarli».
Il trattore della Val di Non quindi si è un attimo inceppato, ma possiamo rassicurare i tuoi tifosi.
«Senz’altro, tornerò come nuovo. Le persone che mi vogliono bene sono più preoccupate di me perché vivono il problema in modo passivo. Ora mi concederò un paio di settimane di riposo e presto potrò raccontare questo ennesimo aneddoto a cuor leggero. Sono tranquillo perché mi hanno detto che, anche se dovesse ricapitare un episodio come i due che ho provato in gara, non rischio la vita e questo, chiaramente, è la cosa più importante. Mi dispiacerebbe in una fase cruciale di una corsa importante dover rallentare perché ho la tachicardia».
Per distrarti quante mele hai raccolto?
«Parecchie. Dopo le ultime corse sono salito sul trattore, da cui sono sceso giusto in tempo per il raduno con i nuovi compagni. Impegnarmi in lavori manuali mi ha sempre aiutato a liberare la testa. Archiviata anche la pratica raccolta mele nell’azienda di famiglia, ora mi posso finalmente rilassare».
Hai ricevuto un ordine anche da un campione olimpico...
«Sì, a Filippo Ganna le avevo promesse. Visto tutto quello che ha vinto quest’anno si è meritato un bel carico tutto per lui».
Dopo sei anni nel gruppo Sky/Ineos, 11 vittorie personali e 4 grandi giri disputati in appoggio ai capitani, cosa ti resta?
«Molta esperienza. Nel team inglese ho imparato a conoscere me stesso, come allenarmi e nutrirmi, ma alla Astana sono convinto di poter fare un ulteriore passo in avanti per la mia carriera. Trovo le persone giuste che credono in me, un bell’ambiente in cui respiro tanta fiducia che voglio ripagare. Non vedo l’ora di iniziare ad allenarmi, correre e ottenere risultati fin dalle prime gare».
Da una squadra all’altra ti porti dietro il tuo fedele compagno Leonardo Basso.
«Ne sono molto felice, fin dagli esordi è una figura fondamentale per me. Nelle corse in cui ho raccolto le più grandi soddisfazioni lui c’è sempre stato e quando al contrario ho rimediato delusioni è stata la spalla ideale su cui piangere. È importante avere un amico al fianco. Leo è in grado di fare il lavoro “sporco”, che magari non si vede in tv ma è fondamentale. Ha una visione di corsa incredibile, come se dovesse vincere in prima persona, e mette a disposizione la sua esperienza per i compagni. Questo è il valore aggiunto del suo ruolo».
In carriera hai vissuto tanti alti e bassi. Hai ottenuto ottimi piazzamenti come il quarto posto ai Mondiali 2019, la terza piazza al Giro di Lombardia 2017 e hai centrato due top 5 alla Parigi-Roubaix nel 2017 (5°) e 2021 (4°), d’altro canto però sei finito nel vortice di un paio di accese polemiche con alcuni avversari che ti hanno accusato di aver pronunciato frasi razziste e di aver alzato le mani in corsa. Dai media sei stato criticato aspramente. Dopo quegli episodi, come ti rapporti con i giornalisti?
«Perdono ma non dimentico. Non me la prendo sul personale, fortunatamente in questi anni sono stato in grado di isolare molto quello che è la stampa rispetto alle mie sensazioni. Quando venivano scritte cose non veritiere sul mio conto facevano male, ma non ne ho fatto una malattia. Sono convinto che alla fine della giornata, quando chiudi la porta di casa, stanno dentro solo le persone a cui credi e alle quali vuoi bene, sei tu a scegliere chi far entrare nella tua vita. Ovviamente non si può piacere a tutti e io cerco solo di essere me stesso, forse per questo sono finito in situazioni che sono state amplificate dal contesto in cui mi trovavo, con un altro risalto mediatico non sarebbe mai scoppiato il rumore scaturito attorno alla mia immagine. Ad ogni modo so distinguere tra chi ha sempre scritto cose vere, attendibili, fedeli ai fatti e chi, al contrario, ha cercato di dipingermi in modo diverso da quello che sono. Apprezzo la coerenza dei primi e rispetto il lavoro di tutti, compresi i secondi che sono liberi di svolgere la loro professione come meglio credono, così come io sono libero di rapportarmi a loro di conseguenza. Di certo non riserverò loro l’attenzione che riservo a chi invece stimo».
Il tuo ultimo atto con il team con cui sei passato professionista nel 2016 è stata una Roubaix sfortunata ma di cui sei stato assoluto protagonista. Al riguardo hai scritto: “Mi toccherà ritornarci in questo inferno”.
«Un inferno per uomini veri, non come quello mediatico in cui è facile sparare a zero da dietro un computer, lì bisogna confrontarsi faccia a faccia. Io non ho il potere né l’intenzione di ribattere se qualcuno scrive qualcosa su di me senza verificarne la credibilità, non ho tempo da perdere con certe sciocchezze, preferisco rispondere con i fatti in corsa, ma a volte prendo legnate sui denti anche lì (sorride, ndr). L’Inferno del Nord può diventare il paradiso per qualcuno. Ti dimentichi subito della fatica che hai fatto, di quanto duro è, ti viene voglia di ritornarci per riprovare a conquistarlo».
Cosa ti aspetti di trovare in Astana?
«Respiro già aria di famiglia ed è quello che avevo bisogno in questa fase della mia carriera. Avverto davvero tanta fiducia nei miei confronti da parte di tutti i membri del team e questo mi sta gasando parecchio. Non vedo l’ora di dare l’anima per chi ho intorno e mi fa sentire a casa anche se è solo la seconda occasione in cui ci incontriamo. È quasi emozionante parlare in italiano durante le riunioni. Siamo un gruppo forte e coeso, in cui la mentalità prevalente è quella di casa nostra. Anche chi non è italiano di nascita lo è di cultura, come Riabushenko ed Henao. Mi trovo bene e mi diverto, e si sa, che quando ci si diverte tutto viene più facile».
Hai firmato un contratto biennale, cosa vorresti ottenere in maglia celeste?
«Vincere, vincere, vincere. È scontato ma è l’unica cosa che conta, negli albi d’oro resta solo il nome del primo. Poi c’è modo e modo di vivere le corse, a volte non vinci come mi è successo alla Roubaix quest’anno ma lasci il segno ed entri nel cuore dei tifosi».
Quale sarà il motto con cui Moscon affronterà questa nuova avventura in Astana?
«Poche parole, tanti fatti. Per me cercherò di far parlare i risultati e le prestazioni».
da tuttoBICI di novembre
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