Lui c’era davvero a Tortona quando – il 2 gennaio 1960 - Fausto Coppi morì: “L’immagine di Fausto nella camera ardente, Fausto che ha il viso disteso, i tratti dolci, il colorito di sempre, senza nessuna concessione alla sofferenza, che di solito attanaglia chi combatte pazze battaglie contro il destino e con la morte, sua emissaria malvagia”.
Lui c’era davvero sulla motonave per la Sardegna quando – al Giro d’Italia 1961 – al cameriere che chiedeva quali formaggi desiderasse, Adriano Durante disse: “Per me un formaggio locale”.
Lui c’era davvero sulla strada quando – al Tour de France 1965 – s’impose il ventiduenne Felice Gimondi: “Devo a lui la frase più bella raccolta nel mio tanto ascoltare i campioni dello sport: ‘Se potessi godere di un atto di potere assoluto sceglierei di tornare indietro nel tempo e scusarmi, uno per uno, con i tifosi che agli arrivi mi hanno messo affettuosamente la mano sulle spalle e che io, stanco e talora irato, ho respinto talora anche con male parole’”.
Lui c’era davvero in corsa quando – al Tour de France 1967 – Tom Simpson morì di “cognac, insolazione e doping”: la sera prima, in albergo, “mi chiede se voglio entrare in società con lui in una vantaggiosa multiproprietà in Corsica (ricordo il posto, Cargese), allora si tenevano anche discorsi così, fra giornalisti e atleti”.
Lui c’era davvero sui viottoli quando – alle Parigi-Roubaix dal 1978 al 1980 – trionfava Francesco Moser: “Dopo ognuna delle tre gran belle vittorie nella tremenda corsa del nord di Francia sono andato a parlargli nella sala docce del velodromo, immensa, tutti i corridori nudi a togliersi dalla pelle il fango, la polvere, il sangue anche per le cadute sul pavé”.
“Io c’ero davvero”: gli 86 anni di vita, i 68 anni di giornalismo, le 25 Olimpiadi (estive e invernali), i 28 Giri d’Italia e i 15 Tour de France, le mille partite di calcio, le infinite cene (a rimborso spese), i giri del mondo (gratis), perfino i due polmoni soffocati dal Covid-19 nelle 192 pagine di un libro – “Io c’ero davvero” (Minerva, 18 euro) – in cui Gian Paolo Ormezzano si riflette, si rivela, si specchia, si confida, si confessa. E nel titolo c’è già tutto lo spirito del libro: l’io, da inviato, da direttore, da protagonista, da firma, da autore e un po’ anche attore; il c’ero, perché andava e veniva, tornava e seguiva, guardava e vedeva, esplorava e scopriva, insomma c’era e ne scriveva; il davvero, un po’ per distinguersi da un precedente libro, “Io c’ero” di Enzo Biagi, un po’ per ribadire il concetto di un giornalismo che non era copia e incolla, che non era davanti alla tv o accanto alla radio, che non era per sentito dire, ma che era – un’era d’oro, genuina, irripetibile – esserci. Dunque, una storia dello sport e un’antologia di pezzi, un’autobiografia e un saggio sul mestiere di giornalista, “e pazienza se trombonistica”, una figura in via di estinzione almeno secondo quegli antichi canoni professionali. “Però, ragazzi, è stato bello, devo dirlo, devo scriverlo, devo espiare almeno con nostalgici sospiri la mia fortuna”.
La fortuna di aver conosciuto giornalisti della bravura di Gianni Brera e Mario Fossati, Sergio Zavoli e Gianni Mura, di aver frequentato calciatori dell’arte di Michel Platini e Diego Maradona, Gigi Meroni e Dino Zoff, di essere passato dalla pornostar Cicciolina al generale Charles De Gaulle, dallo scrittore Dino Buzzati all’olimpionico Livio Berruti, dal “Drake” Enzo Ferrari a “Sefi” Josefa Idem. La fortuna – solo per restare in ambito ciclistico – di poter dare del “barista” all’imprenditore di pompe funebri Alcide Cerato (“Gli suggerii di dar vita a una rivista dedicata alla morte, e di proclamarsi editore”, risultato sei numeri di “La Buona Sera”, “mio gran bel titolo”), di poter ricordare una dichiarazione di Tonino Catalano a Sergio Zavoli (“Ho la pedalata buona, domani attacco e stacco tutti: anche Baldini, anche Nencini, anche Defilippis, anche Bahamontes, Anquetil”), di poter vantare un pranzo a casa di Eddy Merckx (“Sabrina prende l’album, lo sfogliamo insieme mentre Claudine prepara filetto ai ferri e insalata indivia bianca, proprio quella che in Italia chiamiamo ‘la belga’”), di poter ricordare quella volta in cui al Giro d’Italia si dopò (“Buttai giù dal mattino al pomeriggio tredici pastiglie, sia di eccitanti immediati, tipo metedrina, simpamina, efedrina, sia di eccitanti a lungo rilascio. Avvertii soltanto il dottor Frattini medico ufficiale del Giro, mi diede dei prodotti epatoprotettivi. Ingurgitai su suo consiglio anche qualche grappino extra per favorire l’assunzione dei prodotti dopanti, lo buttai giù di nascosto dai colleghi d’auto. Non avvertii assolutamente nulla di speciale”).
Ormezzano ha il senso dell’umorismo, il dono della memoria, la proprietà del linguaggio, il gusto del dettaglio, la curiosità del viaggiatore, adesso anche la riconoscenza di chi se l’è vista brutta. Ed è giornalista esuberante, autore tracimante, narratore travolgente, affabulatore inarrestabile, ospite imponente. Se lo può permettere. Lui c’era, c’è e, anche grazie a questo libro, ci sarà davvero.
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