Il ciclismo, sosteneva Gianni Mura, è l’unico sport in cui la fuga non è un atto di debolezza o codardia, ma di forza e coraggio. Fuggire dal gruppo, evadere dall’anonimato, scappare dall’inerzia, dalla rassegnazione, dalla banalità. Darsela a gambe, gambe in spalla, testa bassa e menare. Sapendo che, prima o poi, spesso poi, spessissimo proprio negli ultimi chilometri di corsa, si viene catturati, divorati, inghiottiti. Giusto il tempo di stringere la mano a un eventuale compagno di avventura o salutare il pubblico attraverso la telecamera mobile. Ciao ciao.
“Vie di fuga” è un saggio su questa voglia di libertà, questo bisogno di aria, questa aspirazione al vento, questa filosofia di vita, questo senso del ciclismo. Chi fugge, a suo modo, insegue. Chi fugge, a suo modo, si affretta, si volatilizza, si assenta. Chi fugge, a suo modo, è ribelle, anarchico, rivoluzionario, eremita, sovversivo. Chi fugge, a suo modo, sfugge e rifugge. Chi fugge, spesso frigge. Ma è un rischio previsto, un disturbo calcolato, una sorte desiderata, un destino voluto. Chi fugge, sa quello che si perde, non quello che si prende, fosse anche soltanto fatica e illusioni, ma non delusioni. Perché la cattura fa parte del gioco, dello sport, del ciclismo. E perché si può sempre riprovare. Con un altro atto di forza e coraggio.
La prefazione è di Enrico Brizzi, un fuggitivo nella letteratura (da “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”, anno 1994) e nella vita, più a piedi che in bici, ma anche camminando è fior di fuga. I testi sono di Bidon, collettivo di scrittura liquida, un gruppo di autori stabili (Filippo Cauz e Leonardo Piccione, responsabili dell’idea e promotori del progetto) più altri variabili (stavolta Gino Cervi, Gabriele Gargantini, Marco Pastonesi, Michele Polletta e Stefano Rizzato, che di mestiere fuggono pedalando sulla tastiera del computer, a casa, alla scrivania, davanti alla tv o dentro la tv, nonché Alessandro De Marchi, che di professione fugge direttamente in bicicletta). La copertina è di Tommaso Catone. L’editore è People (208 pagine, 16 euro). Neanche una donna, ma sono pronto a giurare che sia soltanto un caso.
“Vie di fuga”, il libro, nasce come una fuga. Anzi: è una fuga. Una fuga giornalistica, letteraria, editoriale. Giornalistica perché Cauz e Piccione non vanno alle corse come inviati di quotidiani, come specialisti di riviste, come titolari di siti, ma come indipendenti, i vecchi corridori indipendenti (chiamati anche isolati e addirittura diseredati) senza squadra, senza sponsor, senza assistenza, e ci vanno a loro spese, in fuga dalla famiglia, dal lavoro, dalla tv, dal copia-e-incolla. Letteraria perché Cauz e Piccione, senza padroni, senza vincoli, senza limiti, scrivono come e dove li porta l’istinto, anche il ragionamento, certo il cuore. Editoriale perché fra tante storie di corse e corridori, voli pindarici e narcisistici, cicloviaggi e cicloimprese, ciclofilosofie e ciclopedie, i libri di Bidon hanno una loro originalità. Penso all’iniziale “Quel leggero vagabondare. Storie e visioni del Tour de France 2005” (StreetLib, 2015, ebook), penso al “CentoGiro – 99 storie (più una) del Giro d’Italia” (Ediciclo, 2017), penso soprattutto a “Acqua passata. Vita, sorte e miracoli delle borracce nel ciclismo” (People, 2020). Ma ci sono state anche altre vie di fuga. Finché tra carta e video, Facebook e podcast, Bidon si è visto premiato con il suo “Giroglifici” eletto a podcast ufficiale del Giro d’Italia (e qualcosa di liquido, che sia anche danaro, è finalmente arrivato). La qualità della scrittura – mi riferisco a Cauz e Piccione – è alta.
Di Brizzi è “L’arte della fuga, o della voglia di vivere”, Piccione introduce “Il fascino discreto dell’improbabile”, Cauz spiega “Un’idea esagerata di libertà”, Cervi racconta “Storie di fuggitivi non illustri”, Pastonesi si dedica all’eterno fuggiasco Roberto Pagnin, Piccione ricorda la fuga di un’Armata Brancaleone nella Civitanova Marche-Forlì al Giro 2015, Rizzato si confessa da inviato in moto al Giro 2020, poi il diario di De Marchi. Gran belle fughe.
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