Per una vita non hanno mai festeggiato assieme, era impossibile. In compenso se ne sono date di santa ragione, dividendo l’Italia del pedale in due: da una parte di moseriani, dall’altra i saronniani. Due mondi e due modi di interpretare la vita e le corse; due caratteri forti e ben definiti: uno da spada, l’altro da fioretto. Uno irascibile, l’altro sornione. Uno generoso fino allo sfinimento, l’altro capace di sfinirti senza all’apparenza torcerti nemmeno un capello.
Moser classe ’51, 70 anni oggi; Beppe Saronni classe tanta, quanto se non più dello “sceriffo” e di anni 63 portati con leggerezza. Per una vita non hanno mai avuto alcun motivo per festeggiato assieme, ma ieri sera, Beppe Saronni lo ha fatto a San Daniele del Friuli, dove i due si sono ritrovati al consorzio “We Like Bike”, assieme a Moreno Argentin e ad altre personalità del ciclismo.
Settanta candeline, un traguardo importante per il suo amatissimo nemico.
«È arrivato ancora una volta prima lui, ma anche in questo caso sono felice di stargli comodamente a ruota».
La vostra rivalità fa ormai parte della storia.
«La nostra rivalità è stata vera e autentica come poche e, come spesso diciamo, ha fatto bene a entrambi».
Ma oggi, però, andate d’amore e d’accordo…
«Diciamo che abbiamo riposto le armi e siamo buoni amici, che si rispettano e si frequentano con piacere. Spesso ci troviamo a raccontare i nostri duelli: lui fatica a ricordare, io gli rinfresco di tanto in tanto la memoria…».
Quando scoppiò la rivalità?
«Fin da subito: io passai professionista giovanissimo, a soli 20 anni, ma non avevo paura di nessuno. Poi sulle strade tricolori di Compiano (1981) la rivalità che già aveva preso corpo, si è acuita: quello è stato il punto di non ritorno. È stato sufficiente un piccolo contatto con la spalla. Quella di Moser che intercetta la mia e io che gli butto lì a denti stretti “ma se non sai più andare in bicicletta, stattene a casa”. In verità ero stato io a toccarlo inavvertitamente e oggi posso dire che non è stata una bella idea: l'ho caricato a molla e me l'ha fatta pagare. Non l'ho più visto se non all'arrivo, sul podio con la maglia tricolore».
Mi dica che regalo gli farà…
«Già fatto! Giro dell’84, quello vinto da Francesco. Tappa di Bardonecchia, Fignon è in fuga da solo con oltre un minuto di vantaggio. Francesco è senza compagni di squadra, io ne ho tre. Ad una trentina di chilometri dal traguardo viene a cercarmi e con grande garbo e sottolineo garbo, mi chiede una mano: decido di aiutarlo. Annulliamo la fuga di Laurent. In quel Giro si parlò di ruote lenticolari ed elicotteri, ma chi diede davvero una mano a Francesco in quel Giro, fui io. Non è stato forse un bel regalo? Glielo ricorderò... ».
Perfido…
«Io? Ma sa quanti regali gli ha fatto il mitico Torriani, il patron del Giro?».
In che senso, scusi?
«Le dico solo che Francesco nella sua carriera non ha mai scalato in corsa lo Stelvio. Per una ragione o per un’altra, sempre cancellato».
Così però lo fa arrabbiare, non è carino trattarlo così nel giorno del suo genetliaco.
«Ma io gli voglio bene, bene davvero. Francesco è stato un grandissimo, su questo non si discute. Se avessi avuto il suo carattere non sarei stato Merckx, ma Hinault sì. Io vincevo solo quando ero chiaramente il più forte; Francesco, con il suo temperamento e la sua volontà, vinceva anche quando non era il migliore».
Gli faccia un altro complimento.
«Produce un vino davvero buono, che io da più di quindici anni compro senza che lui mi faccia mai uno straccio di sconto. È un complimento…».