A 17 anni e mezzo Antonio Licciardello, classe 1951, è partito da Misterbianco (Catania) ed è salito in Piemonte per tentare la fortuna in bicicletta. Ma dopo un fulminante avvio tra gli Allievi con la Rostese ed un promettente debutto tra i dilettanti, prima con il Cavallino Rosso e poi con la Barbero, “Antoine”, come lo chiamano gli amici, è approdato alla Fiat di Torino. E qui, complici il posto di lavoro sicuro e un direttore sportivo che i corridori buoni preferiva tenerseli per se’, si sono infranti i suoi sogni di passare professionista.
Partiamo dall’inizio…
«In Sicilia vincevo tutte le gare, ma il ciclismo sull’isola non aveva futuro. Così ho accettato la proposta della Rostese e sono venuto in Piemonte. Abitavo con due amabili vecchietti che mi trattavano come un nipote. E io li ripagavo vincendo: su 24 gare disputate nel ’69, al secondo anno da Allievo, ne ho vinte 18».
E poi?
«Nel 1970 sono passato al Cavallino Rosso, perché nel frattempo ero diventato amico di Franco Peruzzo, che già correva nella squadra astigiana. Ho vinto cinque corse, nonostante uno stop di circa tre mesi nel cuore della stagione a causa di una grave caduta durante una gara in Liguria, provocata da un gatto che mi aveva attraversato la strada».
Poi il Cavallino ha chiuso i battenti…
«…così sono passato alla Barbero, che aveva la sua base logistica a San Damiano, dove abitava il direttore sportivo Toso. In due stagioni ho vinto una decina di corse e ho cominciato a cimentarmi nell’inseguimento su pista. Ai campionati regionali del ’71 ho battuto il mio compagno di squadra Donato Masi e da allora ho poi vinto nove titoli regionali consecutivi. Ho anche battuto, con il tempo di 4’57’’9, il record sui 4000 metri sulla pista del Motovelodromo torinese, che da oltre vent’anni apparteneva al grande Guido Messina».
Riuscì a entrare nel giro della nazionale su pista?
«Sì, ma con i vari C.T. azzurri non ho mai avuto troppo feeling. Mi convocavano, mi tenevano in ritiro per un mese e poi, al momento buono, mi facevano fare la riserva. E’ accaduto per le Olimpiadi di Monaco, per i Giochi del Mediterraneo di Algeri e per i mondiali di Rocourt. Ho gareggiato solo ai mondiali militari del ’72 a Parigi, dove però, dopo due mesi di allenamenti in pista, mi hanno fatto disputare la gara di ciclocross. Lasciamo perdere…».
Intanto era passato al Centro Sportivo Fiat…
«Sì, dove ho gareggiato soprattutto su strada perché al direttore sportivo Graglia, che peraltro era un ottimo tecnico, la pista non interessava molto. Con il sodalizio aziendale ho conseguito una quindicina di vittorie, tra cui tre tappe alla Vuelta del Cile e un G.P. Caduti Medesi, dopo una fuga solitaria di 30 chilometri».
Vinse anche la Milano-Asti del ’74…
«Era una giornataccia, freddo e pioggia per tutta la corsa. Sulla salita di Crea siamo rimasti in venti e nel finale ha allungato il lombardo Dell’Acqua. Sono stato l’unico a replicare al suo attacco e nella volata finale l’ho battuto nettamente, ricorrendo un po’ al mestiere che avevo affinato in pista».
Nessun rimpianto di non essere passato professionista?
«No, perché mentre correvo, studiando di sera, mi sono diplomato ragioniere e dopo aver attaccato la bicicletta al chiodo ho avuto una vita lavorativa molto soddisfacente. Ora vivo con la mia compagna Paola a Reggiolo, in Emilia, dove coltivo i miei hobby: le moto, le auto d’epoca e l’antiquariato. Certo, se non avessi corso nel Fiat forse al professionismo avrei potuto approdare. Ma è andata così e ormai è inutile recriminare».
da La Stampa – edizione di Asti
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