Gareggiava con Gimondi e Motta, sognava di rivaleggiare con Zandegù e Basso, sperava di passare professionista. E’ diventato Merckx, ma in Zambia. Dino Giuseppin: Dino di nome e Giuseppin di cognome, un’odissea – la sua – da Teglio Veneto a Lusaka.
Aldino (“Ma per tutti Dino”). Del 1943 (“11 marzo: gemello di Attilio Benfatto e Raymond Delisle, per dire due più corridori di me”). Scuola quanto basta (“Cinque anni di elementari più due di arti e mestieri”), poi al lavoro (“Ordine di mio padre: la famiglia aveva bisogno di schei”), piastrellista (“Anche a Milano”), e sempre ciclista (“Se di grandi amori nella vita ce n’è uno solo, allora la bicicletta”). Le prime pedalate nella sua Teglio (“Con l’Iride”), poi i primi sconfinamenti (“Con il Club ciclistico Stefanutti di San Vito al Tagliamento e nel Gruppo sportivo Portoflex di Altissimo”). Bravo, non bravissimo (“Infatti non tante vittorie”). Però tante soddisfazioni (“Ero il fratello, il fratello lento, di Gino Pancino, mio coetaneo e quasi concittadino. Lui, però, campione del mondo nell’inseguimento a squadre nel 1966”). Un bel Piccolo Giro di Lombardia (“Primo Ercole Gualazzini, era il 1965”) e una mezza promessa non mantenuta (“Un ingaggio con la Magniflex, ma la verità è che ero mediocre”). Di mezzo, il servizio militare (“Quando il comandante mi vide pedalare, mi esonerò dai servizi generali, dalla cucina alle pulizie, mi allungava una bistecca e mi autorizzava a mangiare quello che volevo”). Fu così che trasformò il periodo della leva in una corsa a tappe (“Cecchignola, Vigna di Valle, Bressanone...”). Finché si arrese: addio bicicletta, adesso c’era la vita vera.
Non più Dino Giuseppin il corridore, ma Dino Giuseppin l’avventuroso, Dino Giuseppin l’esploratore, Dino Giuseppin un italiano in Africa. “Cominciai con sei mesi in Sudafrica, tra ponti ferroviari e miniere di zolfo. Poi lo Zambia, settore edile, scuole case industrie... Da zero: si dormiva in carovane, si lavorava in squadre, si guadagnavano dei soldi. Piccolo Brunelli, l’azienda italiana”. Ma il ciclismo era un’idea fissa, una vocazione e quasi una missione. “Ricominciai a pedalare. In Italia avevo un’Iride, poi una Pinarello. Lì mi arrangiai acquistando da un italiano una bici Leone, vecchiotta, modello anni Sessanta. Le prime corse, nel 1970, arrangiate anche quelle, nei cantieri, con una decina di minatori inglesi e scozzesi, senza giudici e senza transenne. Terzo all’esordio, poi spesso primo”.
E così nacque la leggenda: Dino Giuseppin l’italiano, Dino Giuseppin il corridore, Dino Giuseppin il campione, Dino Giuseppin il bianco dello Zambia, Dino Giuseppin il Merckx africano. “Mi facevo in due, anzi, in tre. Lavoravo e mi allenavo, lavoravo e organizzavo, lavoravo e correvo. Corse in Zambia, ma anche altrove, le trasferte in Madagascar e Mauritius, dove si gareggiava con le squadre nazionali, e le partecipazioni ai Mondiali e ai Panafricani. In Madagascar vinsi una cronometro, in Danimarca una tappa. E per un’altra gara, qui in Zambia, per dare lustro all’evento, padre Antonio mise in palio una maglia di Beppe Saronni arrivata chissà come dall’Italia: arrivai primo, ma quel premio finiva al secondo, che peccato”.
Dino Giuseppin si è anche prodigato per divulgare il verbo pedalare e moltiplicare apostoli e discepoli: “Fra loro c’era anche mio figlio Gianni, nazionale dello Zambia a 17 anni, poi semiprofessionista a Portogruaro, ex Zalf, aveva un po’ di talento ma non la voglia di faticare, quindi niente. E invece io continuavo a divertirmi: allenavo, dirigevo, stavo tra i giovani, tenevo me in esercizio e loro lontano dalle tentazioni, droga e alcol, disonestà e corruzione, cattive compagnie. Ma adesso le cose sono cambiate. Il ciclismo è stato abbandonato, senza aiuti, senza sponsor, senza bici, senza più corse e corridori”. Dino Giuseppin combatte la nostalgia come può, ricordando, raccontando, sognando. In un angolo, in casa, a Lusaka, la sua Guerciotti del 1972.
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