Teneva il piede in due scarpe. Anzi, teneva i due piedi in quattro scarpe. Quelle da corridore e quelle da artigiano. Quelle da corridore erano passione, fatica, salita, quelle da artigiano erano professione, ricerca, precisione. Quelle da corridore, personali, e quelle da artigiano, familiari. Quelle da corridore, ciclismo, e quelle da artigiano, lavoro e montagna. Finché, sceso dalla bicicletta, si dedicò alle scarpe da ciclismo, si trasformò da artigiano a industriale, si elevò da gregario a campione. Vittoria, il nome dell’azienda, è da campioni.
Celestino Vercelli è morto ieri mattina. Probabilmente senza scarpe. Per l’ultimo viaggio non ce n’è bisogno. Di strada, a forza di pedali e idee, ne aveva fatta più dei suoi capitani. Aveva 74 anni. Piemontese nel cognome e nel luogo, Soriso, la prima bici a 15 anni, la prima corsa poco dopo, la prima caduta subito nella prima corsa, la prima vittoria un anno dopo. “I primi quattro anni, allievo e junior, correvo e lavoravo – raccontava -. Ma da dilettante sarebbe stato impossibile. Così trovai una squadra, la Vallese, che raddoppiava i premi vinti in gara. Se andavo male, zero, ma se mi piazzavo tra i primi 15, soldi. In più una bici, Godio di Borgomanero, una maglia di lana, biglietti di viaggio in Italia e all’estero”. Bei ricordi: il Gran premio del Rosso a Montecatini, conquistato a braccia alzate, la Coppa mobilio a Ponsacco, vinta a cronometro, e la Berlino-Praga, corsa in maglia azzurra. Poi 10 anni, quelli di Gimondi e Merckx, Moser e Baronchelli, da professionista.
Gregario, ma protagonista. Il passaggio: “Non esistevano manager, agenti, procuratori. Ci si arrangiava da soli”. Lo stipendio: “Il primo era di 80mila lire al mese, più di quello che prendeva un operaio, ed era il confronto che si faceva sempre”. I compiti: “All’inizio accompagnare i capitani fino ai piedi della salita. Poi anche in salita”. I segreti: “Spingerli o trainarli. Allora si poteva”. I capitani: “Motta e Schiavon, il primo anno, alla Sanson. Ritter e Reybroek, il secondo anno, alla Germanvox. Poi da Balmamion a Dancelli, da Bitossi a Paolini, da Panizza a Baronchelli alla Scic. L’ultimo anno alla Intercontinentale, ma ormai il meglio lo avevo dato”. Le corse: “Sette Giri d’Italia e due Tour de France, tutti e nove finiti”. Le vittorie: “Una, nel Circuito di Valdengo, quello di casa”. Le altre vittorie: “Ogni volta che un mio capitano vinceva, era come se un po’ di me avesse tagliato il traguardo per primo, come se un po’ di me avesse ricevuto il bacio della miss, come se un po’ di me avesse lanciato il mazzo di fiori agli spettatori”. Un po’ di lui.
L’altro po’, l’altro bel po’, solo nelle rare giornate di libertà. Quella cronometro alla Tirreno-Adriatico del 1969: “Il mio primo anno, terzo dietro ad Adorni e Bitossi”. Quel prologo al Giro di Svizzera del 1972: “Cronosquadre, secondi con la Scic dietro agli olandesi”. Quella Coppa Sabatini del 1975: “Secondo dietro a Battaglin ma davanti a Gavazzi”. Quella Milano-Sanremo del 1969: “Duecento chilometri di fuga, nata poco dopo la partenza”. Quel Tour de France del 1971: “Tutto a Mulhouse. Il sabato la cronosquadre, prima la Molteni di Merckx, noni noi della Scic. La domenica tre tappe: la prima vinta da Leman, la seconda da Karstens, la terza da Van Vlieberghe, e Merckx in maglia gialla. C’erano anche le salite. E i distacchi. Quando siamo partiti per la terza tappa della giornata, alcuni corridori non avevano ancora finito la seconda”. Quella tappa al Tour de France del 1971: “La famosa Orcières Merlette-Marsiglia, quando Merckx e la sua squadra attaccarono al pronti-via per riprendersi quello che nella tappa precedente Ocaña aveva preso a Merckx. Il gruppo si spezzò, io ero davanti, si andava così forte e faceva così caldo che il mastice si scioglieva e i tubolari si staccavano dai cerchioni. Successe anche a me. E tutto il giorno, nelle orecchie, il frinire delle cicale”. Quel Giro del Veneto del 1972: “In fuga, venni ripreso a due chilometri dall’arrivo. Ma mi impegnani per tirare la volata a Paolini. Vinse. E fu un’enorme soddisfazione”. Quel Giro della provincia di Reggio Calabria del 1972: “In fuga con Crepaldi. A 10 chilometri dall’arrivo Ottavio andò in crisi. Da solo non resistetti al ritorno del gruppo. E fui ripreso”.
Nel gruppo, Vercelli svettava: “Un metro e 87. Ce n’era uno solo più alto di me: Vandenbossche”. Avrebbe svettato anche dopo, Celestino. Certe fatiche, anche da secondo o terzo, ma anche da ultimo, valgono per la vita.