Questo è un intervento strettamente personale di un giornalista che ha seguito il suo primo Giro d’Italia nel 1959, gliene ha incollati professionalmente altri 27, ama il ciclismo, e a suo tempo passò per eretico fra i santoni della bicicletta. Questo giornalista ritiene che sia sbagliata la diagnosi scaturita dall’ultimo Giro d’Italia e riferentesi a un po’ tutto il ciclismo, già “colpito al Tour dalla vittoria di uno sloveno su un altro sloveno, due cioè di un Paese senza tradizioni. Era, quello del 1959, ancora il ciclismo dei giornalisti cantori, epigoni stretti di quelli del cosiddetto ciclismo eroico. Coppi era vivo, Bartali imperversava alla televisione, Zavoli inventava il Processo alla tappa. Il fattaccio dello sciopero recente da fighetti al Giro è altra cosa, il nostro intervento vuole essere più vasto e pazienza se meno cattivante per attualità, più diluito nel tempo e nei fatti e nelle persone.
Passo alla prima persona che detesto, mi sa di prosopopea e dogmatismo, ma devo usarla perché mi sento davvero abbastanza solo. Leggo di nostalgia per il ciclismo di una volta, quando i corridori sicuramente non scioperavano per accorciare il chilometraggio di una tappa nel giorno di pioggia. Leggo di delusione per l’avvento di corridorini e corridorucci che non avrebbero personalità, che vincono con comportamenti normali, regolari, logici e non epici, e non hanno molta voglia di sfidare gli elementi atmosferici. E mi viene un sospetto: che tanto ciclismo epico di una volta contenesse una buona dose di bluff, dovuto alla necessità di enfatizzare il materiale umano scarso e disponibile. Che il ciclismo eroico fosse un “travestimento” per abbellire i poveracci, che fra l’altro dovevano essere di umili origini (ideali in assoluto quelle contadine), di aspetto proletario, di modi plebei eccetera eccetera…
Si enfatizzavano allora i corridori scorfani: la pulce dei Pirenei, il “testa di vetro” della Bretagna, chez nous lo scopino di Monsummano, il pastorello di Pavullo. Fausto Coppi era bruttino giù di sella, aveva un torace da uccello, e per questo era scorfano divino. Il ciclista normale doveva essere piccolo o almeno non alto, sgraziato, poco muscolato, non atleta classico, diciamo ellenico, meglio asceta. Arrivò un certo Eddy Merckx, alto e forte di muscoli, e sentii Gianni Brera (che stimai anzi adorai in assoluto, non nel relativo di certe sue boutades provocatorie) sentenziare che mai avrebbe vinto una grande corsa a tappe perché fiammingo e mangiatore di polenta. E poi il belga era troppo alto: come se non esistessero i rapporti per le salite e non fosse possibile trasferire si qualsiasi terreno la forza delle gambe sui pedali… C’era tutto un sport “altro” che nel dopoguerra si sforzava di celebrare atleti belli, forti, non più affamati e finalmente tutti sani, e però nel ciclismo si celebrava ancora il fachirismo, l’ascesi, la povertà fisica “ambientata“ nell’umiltà morale.
Io ero arrivato al giornalismo sportivo dal nuoto agonistico e amavo l’atletica, ogni tanto mi permettevo sì di scrivere che forse si sbagliava tutto, penso che ero divertente, assurdo ma divertente, per questo venivo tollerato. Il ciclismo era lo sport glorioso del villaggio italio-franco-belga, con visitazioni saltuarie svizzere, olandesi e spagnole. Bastava ed avanzava per noi, per i lettori dì allora voglio dire. Inglesi e tedeschi corridori erano animali curiosi, il resto del mondo non esisteva. Adesso si registrano e intanto si patiscono gli avventi nelle alte classifiche di corridori davvero di tutto il mondo, con grande abbondanza di australiani e di latinoamericani, dopo l’ormai certificata esplosione degli statunitensi e dei canadesi, ci sono giapponesi e cinesi, prossimi vincitori al Giro e al Tour. Gli africani hanno del problemucci che si chiamano fame, malattie, guerre e migrazioni, per ora. Ma tengono gambe buone e lo dimostrano nella dominazione delle corse a piedi su lunghe distanze. Le biciclette costano troppo per loro, ma se potessero usare la forza delle loro gambe per pedalare su di esse…
Scrivevo che il ciclismo avrebbe potuto essere stravolto, e nei valori massimi, se in bicicletta, e per le grandi corse “nostre”, fossero saliti i forti bipedi di Usa o Urss. Non passavo per pazzo solo perché pochi mi filavano, non facevo quasi rumore. Come quando ascrivevo il doping alla scienza, e esortavo a sfruttare certe scoperte anziché demonizzarle (poi arrivò Armstrong e un decennio e mezzo di suo uso di prodotti sleali, ma forse da usare per curare persone malate, deboli).
Adesso possiedo distacco anagrafico e non solo per meglio vedere dal di fuori cosa accade. Registro i sospiri per un certo ciclismo eroico che non c’è più, per lo Stelvio umiliato. Ma chi ha deciso che i vincitori attuali dello Stelvio non sono grandi atleti e quindi non hanno anche da essere ritenuti grandi ciclisti? Hanno dei pullman riscaldati che li attendono dopo la tappa, sai che colpa. Una volta si esaltavano le trasferte in terza classe e sui sedili di legno, sai che bello. Ma perché quelli dei corridori torturati in corsa e non solo dovrebbero essere ritenuti tempi migliori? Migliori per chi? Per chi leggeva di queste torture e si compiaceva del proprio vivere comodo o comunque meno disagiato? Per i giornalisti che in tanti descrivevano le sofferenze altrui con una esondazione sentimentale pari almeno alla siccità sintattica e grammaticale, e senza quasi mai vedere i corridori in azione? Tempi comodi per i fortunati, ecco, con proposta di attori vicini di casetta, passeggeri di strada nei nostri paesucoli, eroi e fachiri da spupazzare anziché da studiare casomai aiutare con qualcosa di più di un batter di mani…
Ricordo un manager amico mio che per i suoi corridori sceglieva i migliori alberghi e veniva criticato perché, dicevano, li rammolliva. Agli arrivi azionava lo spray alla lavanda per profumarli almeno un poco acciocché non fossero sempre chiamati puzza piedi, era tanto che non lo dicessero gay. Non era amato nell’ambiente, eppure lui amava e conosceva il ciclismo e prima Coppi poi Merckx, Zilioli e poi Balmamion si affidarono a lui. Se ne è andato troppo presto, cuore eccetera, alla fine di una tappa del Tour toccò a me annunciare a Eddy e a Italo, “figli” suoi, che era morto. C’è qualcuno che ricorda il suo nome?
da tuttoBICI di novembre