La storia comincia un 10 dicembre, quando la squadra nazionale della Grecia si raduna per preparare, per la prima volta nella storia del ciclismo ellenico, il Tour de France. Mai i corridori avrebbero immaginato di poter partecipare a una corsa così importante e di alto livello: finora i greci si erano cimentati in gare all’Est o in Asia, a un livello decisamente inferiore. Ma la scelta degli organizzatori del Tour, tornare alle squadre nazionali invece che a quelle commerciali, ha riaperto i giochi. E la candidatura della Grecia è stata accettata.
Nella sala delle riunioni dell’Hotel Le Domaine, alle 17, è prevista la conferenza-stampa, attesissima, tant’è che sono arrivati giornalisti da tutto il mondo. Puntuali, si presentano i tre corridori greci più rappresentativi: il capitano Socrate, lo sguardo malizioso, più volte vincitore della Ronda dei Carpazi e del Giro del Peloponneso; il suo fedele luogotenente Platone, lottatore convertito al ciclismo, che sarà di grande aiuto a Socrate quando dovrà proteggerlo dal vento in pianura; e Aristotele, un giovane agguerrito, ma già con acuto senso tattico, vincitore di una tappa al Giro della Macedonia dell’anno precedente, quando approfittò del marcamento dei principali favoriti per involarsi in solitudine.
La prima domanda è sulla preparazione. La seconda è più interessante: che ne dite della vostra prima partecipazione al Tour? “Alla mia età – risponde Socrate – era insperata”. “Alla mia età – dice Aristotele – è promettente”. “Alla mia età – spiega Platone – è il momento giusto”. E aggiunge: “Per molta gente, il ciclismo si riassume nel Tour de France. Il grande pubblico non sa che ci sono altre corse in calendario. Nel mio tempo libero dirigo un centro di ciclismo, una sorta di accademia dove aiutare e far progredire i giovani corridori di Paesi, Grecia o altri, che non hanno la cultura del ciclismo”.
“Socrate à vélo”, Socrate in bicicletta: s’intitola così il libro che Guillaume Martin, 27 anni, 1,73 per 55 kg, parigino, ha scritto sul mondo del ciclismo visto alla sua maniera, quella del filosofo. Perché lo scalatore della Cofidis è un filosofo: un Master in filosofia, conseguito alla prestigiosa università di Parigi Ovest-Nanterre, con una tesi di 183 pagine su Friedrich Nietzsche (il filosofo tedesco che morì nel 1900, tre anni prima della nascita del Tour), intitolata “Lo sport moderno: un’applicazione della filosofia nietzschiana?”. Nel senso ambiguo del Superuomo, del superamento di se stessi.
Tradotto in inglese e in cinese, ma non – e non c’è da stupirsi - in italiano, “Socrate à vélo” (una nuova edizione Grasset nel 2020, 208 pagine, 17,90 euro) stimola, stuzzica, spinge a domandarsi, indagare, approfondire. Tra finzioni e costruzioni, Martin rivela perché ha scritto il libro: “Mettere in discussione il modo in cui il grande pubblico percepisce gli atleti, e i ciclisti in particolare. Una percezione che troppo spesso sembra oltraggiosa e frammentata”. E ricorda quando, intervistato da Pierre Carrey di “Libération”, il titolo del pezzo era “Nietzsche nel manubrio“, in un attimo salì al centro dell’attenzione dei giornalisti: “Qualche giorno prima avevo sentito parlare di uno studio scientifico che quantificava la quota di originalità nei media. I risultati sono stati sorprendenti: il 64 per cento degli articoli online si è rivelato essere completamente taglia-e-incolla. Tutti i media si stanno riprendendo a vicenda, hanno spiegato i ricercatori. Basta che le informazioni appaiano su un giornale o su un sito noto per essere diffuse dovunque. Avevo ragione”.
In questi giorni Martin ha altro a cui pensare: “In corsa, spesso, non si pensa a nulla”. Lui, tra forature, incidenti e crisi, avrà pensato a qualcosa? O a qualcuno? Più a Socrate, a Platone o ad Aristotele? E comunque, avrà preso tutto con filosofia?
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