“Pipaza” Giuseppe Minardi - aveva il dono della simpatia e della sincerità, e anche altri doni, come già confidenzialmente raccontato nelle prime due puntate. La terza non era prevista, ma se la merita, no?
VUOTO “Il massimo dell’occasione ai Mondiali del 1951 a Varese. Nazionali formate da sei uomini: c’erano meno avversari lì che alla Sanremo o al Lombardia. Dodici giri, quasi 300 chilometri. Al terzo giro entrai nella prima fuga, otto corridori, ma mi spremetti troppo. A metà gara ci raggiunse Magni e cedette un olandese. Al terzultimo giro andò via Kubler, svizzero, anzi, svizzero-tedesco, che si era comprato Schwarzer, un tedesco stanco. Ripreso Kubler, attaccò Magni, ma Kubler, faticando tanto, lo riprese. Al penultimo giro andò via Bevilacqua, ma Kubler, con la forza della disperazione, lo riprese. A quel punto, se solo ci fosse stato un altro attacco, sarebbe andato a segno. E avrei dovuto attaccare io, ma ero vuoto, rimanevo attaccato con il filo della bava. Così si arrivò all’ippodromo in volata e ci fu un mezzo pasticcio, primo Kubler, secondo Magni, quarto Bevilacqua, ottavo e ultimo del gruppetto io. Lì, se ne avessi avuta, mi sarebbe cambiata la vita. Forse il nervosismo, forse la responsabilità. Avevo 23 anni, puttana boia”.
INTRUSO “Il massimo della storia al Giro dell’Emilia del 1952. Si partiva da Bologna, si arrivava a Bologna, quasi 300 chilometri passando per la bassa bolognese, la Porretana, l’Abetone, il Barigazzo... Verso l’Abetone andò via un gruppetto con Magni, Fornara e Defilippis, sei minuti di vantaggio sul gruppo con Coppi, Bartali, Astrua e me. Appena all’inizio della salita dell’Abetone Coppi, con la sua falcata, in progressione, allungò il gruppo a fisarmonica, alla sua ruota Bartali, Astrua e io. Riprendemmo i fuggitivi, li passammo, a un chilometro dalla vetta rimanemmo noi quattro, in cima passò primo Bartali, Coppi a 30 secondi, Astrua e io alla sua ruota. Scollinammo. Finita la discesa, cominciava il Barigazzo, 13 chilometri di salita, in verità tre salite in una, a scale. A metà Barigazzo cadde Astrua, così dietro a Bartali rimase Coppi e io alla sua ruota. Sul Barigazzo passò primo Bartali, poi Coppi e io alla sua ruota a 3 minuti. Poi c’era solo discesa tranne lo strappo di Serramazzoni, 8-900 metri, sapevo che lì Coppi mi avrebbe attaccato. Perché ero io l’intruso. Rimasi attaccato con la forza della disperazione. Alla periferia di Modena raggiungemmo Bartali che, intelligentemente, si rifocillava. La gente era in delirio. Dopo Modena, a destra, sulla via Emilia, 36 chilometri di pianura, a passo d’uomo. Avevamo otto minuti di vantaggio. Io, ero uno sbarbatello: ‘Dai, ragazzi, andiamo, ché ci raggiungono’. Il terzo posto mi andava bene. Ma loro non si muovevano. Allora osai fare una proposta ingenua: ‘Lasciatemi andare via’. Bartali mi rispose: ‘Per me va bene, se è contento Fausto’. Rifeci la proposta a Coppi, e lui prima mi domandò ‘cos’ha detto Gino?’, poi mi disse ‘allora vai pure’. Bevvi l’ultimo sorso d’acqua, strinsi i cinghietti e invece che pedalare a 35 all’ora, allungai a... 36. Dopo un paio di chilometri mi voltai indietro e vidi che mi tenevano a bagnomaria, e mi lasciai riprendere. Arrivammo a Bologna con un minuto di vantaggio sul gruppo. Poi la volata: primo Bartali, secondo io, terzo Coppi. Ma Coppi avrebbe meritato il secondo posto”.
TERRORIZZANTE “Il massimo della folla al Giro d’Italia del 1953. Era la sesta tappa, la Napoli-Roma, di quasi 300 chilometri. Si arrivava all’Olimpico, prima della partita di calcio Italia-Ungheria, che inaugurava lo stadio, il campo, i futuri Giochi. Fuga di sette. Per entrare nell’Olimpico c’era un tunnel: la luce, fuori dal tunnel, era così accecante che, dentro il tunnel, un semicerchio, solo a metà si vedeva il foro d’uscita. Lo svizzero Fritz Schaer entrò in testa a spron battuto. L’urlo della folla fu terrorizzante. Un urlo così può paralizzare o dare una frustata. Ci saranno state centomila persone. Entrai terzo, dietro a Schaer e a Luciano Maggini, e dietro di me Toni Bevilacqua, Guido De Santi e gli altri. Si pedalava sulla pista podistica in terra battuta. Tentai di passare all’interno. Era un azzardo: avrebbero potuto buttarmi sul prato, perché la regola prevedeva il superamento all’esterno. Ma ci riuscii. Vinsi davanti a Maggini, Giudici, Schaer, Bevilacqua, Scudellaro e De Santi. Poi feci il giro d’onore con un mazzo di fiori in mano: un minuto e mezzo che mi viene la pelle d’oca ancora adesso. E Coppi mi disse: ‘Non sai quanto avrei dato per vincere io’”.
TRASPORTATO “Il massimo della sfortuna sempre al Giro d’Italia del 1953. Era la dodicesima tappa, la Modena-Genova, di quasi 300 chilometri. Ero da solo, avevo già staccato i miei compagni di fuga, la corsa era già vinta. Ma pioveva. L’acqua bagnò il cerchietto di alluminio del tappo del freno. Nella discesa della Ruta, a una ventina di chilometri dal traguardo, invece di scendere a 25 all’ora, venivo giù a 45. Sapevo che sarei caduto prima ancora di cadere. Ma ormai non c’era più nulla da fare. E caddi. Finii contro un palo. Si trattava di un cippo di cemento collegato con balle di ferro verniciate in bianco e nero. Fui trasportato all’ospedale di Recco. E lì terminò il mio Giro”.
RUSPANTE “Colazione: mezzo litro di latte con i biscotti. Allenamento: 170-180 chilometri al giorno, però si andava più piano. Rifornimento: panini, non con la carne tritata, ma con il burro e la marmellata. Cena: bistecca ai ferri con olio d’oliva e due uova strapazzate. E vino, vino schietto, non annaffiato, un litro al giorno, non si sapeva che facesse venire mal di gambe, sennò non lo avrei bevuto. In corsa: panini imbottiti per fare il fondo, per riempire il serbatoio, e vino Chianti, un po’ amarognolo, che mi faceva digerire bene, quando ci voleva il rutto. E un pasticchino di stenamina, durava tre ore, rendeva i riflessi prontissimi. Dopo un quarto d’ora ero buono, vedevo tutto rosa, prevedevo chi mi avrebbe urtato, e se intuivo un buco, ci passavo lo stesso. Era un mondo più ruspante”.