(seconda e ultima puntata, con gli appunti – inediti e dimenticati – presi chiacchierando con Minardi e il comune amico Ivan Neri)
SOPRANNOME “A quei tempi, in Romagna, si storpiava il nome. Minghì o Mingò per Domenico, Pirì o Pirò per Pietro, Pipino o Pipetto per Giuseppe. Io, bonariamente, Pipaza”.
BOLLETTA “Nei circuiti con Coppi e Bartali, ingresso a pagamento, facevo entrare – gratis – i ragazzini. Sapevo che cosa volesse dire essere in bolletta. ‘Ma state zitti – mi raccomandavo – non vi muovete’. Non mi tradirono mai”.
LIMONI “Alla vigilia del Giro della provincia di Reggio Calabria, all’ora del tè, mi telefonarono dall’ufficio dell’albergo. ‘C’è un signore che vuole parlare con lei’. Dissi di mandarlo su. Non in camera, ma in un salottino. Quell’uomo avrà avuto 36-37 anni, ma ne dimostrava 50. Aveva con sé una cesta piena di limoni. ‘E’ lei Minardi?’. E mi dette la cesta. Lo pregai di rimanere a prendere il tè con noi. Si trattenne, poi ci salutò e tornò a casa. Abitava a Catona, a 10 chilometri da Reggio Calabria, e a tutti raccontò di me, della Legnano e del tè. Nessuno ci credeva. Così la sera stessa Pasquale, si chiamava così, tornò da noi. Gli promisi che l’indomani, dopo la corsa, vada come vada, sarei andato a casa sua con l’ammiraglia e tutta la squadra. ‘Però – aggiunsi – a un chilometro dell’ultima salita dammi una bella spinta’. Il giorno dopo, in corsa, a un chilometro dal gran premio della montagna, vidi Pasquale, pallido, immobile, come pietrificato. Alla fine vinsi in volata su Coppi ma non dimenticai la promessa: sull’ammiraglia, con qualche compagno, andammo a Catona, cercammo la sua casa, modesta ma linda, Pasquale ci presentò la moglie e una marea di figli. Dopo un minuto la casa era assediata dai catonesi. Rimanemmo lì quasi due ore. Lui non capiva più nulla: in quel momento era il re del paese. E da quell’anno, per anni, mi mandava una cassetta di limoni a casa”.
SALIVA “In corsa l’importante era mandare giù, poi si arrangiava lo stomaco. Io avevo un guaio: poca saliva. Per mandare giù un panino ci volevano 12-13 chilometri”.
COTTA “Se prendevi una cotta, perdevi tutto, dall’orgoglio ai calzoncini”. “Su con il passo del bove, ma mai messo piede a terra, piuttosto mi ritiravo”.
ASTINENZA “L’astinenza mi dava fastidio: c’erano delle così belle ragazze”.
FRITTATA “Giro di Lombardia del 1951, tirai la volata a Soldani, io secondo e lui quarto... Era l’ultima corsa della stagione, poi ci sarebbe stato solo il Baracchi, ma non ero stato invitato. Così tornai a casa. Non vedevo l’ora di andare a briglie sciolte, passare qualche ora come si doveva, avevo appuntamento con certe ragazze, e dopo cinque-sei mesi di astinenza ci detti dentro. Le prime due o tre neanche le sentivo, arrivai a sei. Poi al centralino di Solarolo arrivò una telefonata da Milano: era la Legnano. Mi precipitai: era Magni, voleva che facessi il Baracchi con lui. Sapevo di aver fatto la frittata, ma senza colpa. Domenica volavi, mi incoraggiò Magni. Non ebbi il coraggio di dirlo, mi vergognai, mi lasciai convincere, andai a Monza a casa di Albani, e neanche a lui ebbi il coraggio di dirlo per evitare che mi desse del pirla, sua madre mi preparò da mangiare, e bene, e neanche a lei ebbi il coraggio di dirlo per risparmiarmi una lavata di testa. Andai a letto sentendomi un ladro, un traditore, verso Magni, verso Albani, verso la madre di Albani, verso tutti. Speravo che quella notte crollasse il mondo, invece no. La mattina dopo piovigginava soltanto. Pronti, via, partii sempre con riserva perché non avevo la coscienza a posto. Io tiravo 200 metri, Magni 400. Dopo 100 chilometri di colpo ebbi una crisi. ‘Sta’ a ruota - mi ordinò Magni – e se vado troppo forte grida eh!’. Eravamo in testa con 3 minuti di vantaggio. Gli ultimi 26 chilometri furono una tortura: mai sofferto tanto in vita mia, quando vedevo un cavalcavia gridavo eh!, Magni tirava regolare, arrivammo a Bergamo che non capivo più niente, con un minuto e pochi secondi di vantaggio, ce la facemmo. Dopo 50 anni confessai a Magni e Magni si mise a ridere. Ma effettivamente sei erano troppe: mi ero smidollato”.
SCRITTA “Di solito sui muri c’era scritto W COPPI o W BARTALI, ma poco viva gli altri. Invece, Giro della provincia di Reggio Calabria, a Melito Porto Salvo, un paesino di fronte all’Africa, c’era scritto W MINARDI. Coppi mi chiese come mai. Gli risposi: ‘Io sono popolare’. La verità è che lì abitava Glauco, un mio compaesano, faceva il ferroviere e aveva sposato una ragazza del posto”.
GELATO “Circuito di Cavezzo di Modena. Ero in macchina, una Fiat 1100 beige, con mia moglie. Si affiancò una macchina di lusso, una Lancia: Coppi e la Dama Bianca. Ci fermammo a prendere un gelato, circondati da una folla crescente. Pagò lui. Non avrebbe mai permesso che lo facessi io”.
PACCHIA “Il mio babbo, a nove anni, era garzone contadino, l’ultimo anello della catena sociale. Durante la Grande Guerra entrò nel corpo degli arditi, partecipò a mille assalti e non fu mai ferito. Mi raccontava che in quel periodo, rispetto alla vita nei campi dove si lavorava 14-15 ore al giorno, se la passava da gran signore. Questa, diceva a se stesso, è una vera pacchia”.
SCIENZIATO “A 12 anni anch’io ero garzone contadino. I più facevano la terza elementare, alcuni la quinta. Mia madre era una donna intelligente e avrebbe voluto che continuassi a studiare, ma i vicini di casa le dicevano: ‘Cosa vuole che diventi, uno scienziato’?”.
BRUGHIERA “Siamo gente da bosco e da brughiera, da pari e da dispari, che va bene da destra e va bene da sinistra. Insomma, siamo gente semplice”.